Donald Trump, ha adottato una linea più dura contro la Russia, annunciando in parallelo un rinnovato supporto bellico per l’Ucraina e nuovi dazi punitivi per la Russia. Ma, «per quanto il cambio di rotta di Trump sulla Russia possa sembrare apprezzabile a livello internazionale, la realtà è più complessa» ha commentato Julien Mathonnière, economista specializzato in mercati petroliferi presso Energy Intelligence, in un’intervista a The Epoch Times Usa: «Sanzioni secondarie sui Paesi dipendenti dal petrolio russo potrebbero costare a Mosca quasi 200 miliardi di dollari di entrate, ma solo se applicate rigorosamente. E questo è un grande ‘se’». Le nazioni in questione (oltre alla Russia) sono Cina, India e Brasile, tutte membri fondatori dei Brics; e Cina, India e Brasile sono i principali importatori di greggio russo.
Dal 2022, anno dell’invasione russa dell’Ucraina orientale, Stati Uniti e Unione Europea hanno imposto numerosi pacchetti di sanzioni contro Mosca e le sue imprese. Il 18 luglio, l’Ue ha approvato il diciottesimo pacchetto di misure punitive concentrandosi sul settore energetico russo. Finora, Bruxelles e Washington hanno evitato di colpire i Paesi terzi che continuano a fare affari con la Russia, permettendo a Mosca di incassare centinaia di miliardi di dollari dalla vendita di petrolio a partner come Cina e India: le sanzioni non hanno mai escluso il petrolio russo dal mercato, per cui, dicono gli analisti, le nuove misure avranno certamente un impatto sull’economia russa, ma senza metterla in ginocchio.
Ma l’introduzione di sanzioni secondarie sui principali partner commerciali della Russia segnerebbe un cambiamento radicale nella strategia sanzionatoria. Il 15 luglio, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha sminuito la minaccia di Trump, sottolineando che le sanzioni contro la Russia hanno già raggiunto livelli senza precedenti, e senza che la Russia abbia problemi (almeno questo è quello che sostiene il Cremlino). Di fronte alle nuove sanzioni, insomma, la Russia fa spallucce. Il 15 luglio, il commentatore politico russo Malek Dudakov, parlando all’agenzia Tass, ha definito la minaccia di sanzioni secondarie di Trump «un tentativo di resistere alle pressioni dei falchi di Washington»: i nuovi dazi sarebbero, solo una «leva negoziale, niente di più». Ma, d’altra parte, dichiarazioni che ostentano tanta “sicurezza” potrebbero essere un banale bluff.
I mercati hanno accolto senza reazioni scomposte l’avvertimento di Trump, e i prezzi del petrolio hanno registrato un lieve calo subito dopo l’annuncio: «i trader hanno già liquidato la dichiarazione, convinti che Trump cambi spesso idea» dice Mathonnière, «Inoltre, temono che questa politica possa ritorcersi contro, facendo salire i prezzi del petrolio, che Trump vuole invece mantenere bassi». Ma “i mercati” funzionano secondo logiche speculative, e hanno in ogni caso sofisticati meccanismi di copertura: i veri trader, insomma, ragionano in modo diverso, perché loro cadono sempre in piedi. Interpretare quindi le scelte della politica alla luce delle reazioni degli speculatori non sempre porta a conclusioni corrette, come Donald Trump sta dimostrando.
Sia come sia, sempre secondo Mathonnière, si dovrà monitorare se grandi acquirenti come Cina, India e Turchia intensificheranno gli acquisti di greggio e derivati russi nelle prossime settimane, per accumulare scorte, entro i 50 giorni. Attualmente, Cina e India importano circa due milioni di barili di greggio russo al giorno, mentre la Turchia ne acquista circa 300 mila. «E lo fanno a prezzi vantaggiosi», per cui «impedirglielo li costringerà a cercare altre fonti, con costi probabilmente più alti, nonostante l’Opec+ abbia aumentato l’offerta più rapidamente del previsto».
Inoltre il regime cinese «potrebbe ignorare le sanzioni Usa e continuare ad acquistare greggio russo, anche se India e Turchia si fermassero» osserva Mathonnière, «questo significherebbe maggiori volumi per la Cina a prezzi ancora più convenienti». Ma, con ogni probabilità, questo significherebbe anche ulteriori sanzioni alla Cina dall’America. E le sanzioni di Washington, si è già visto, sono in grado di fare molto male a Pechino.
La partita a scacchi è insomma lunga e complessa, fatta di mosse e contromosse. E a vincerla – come negli scacchi appunto – sarà chi avrà saputo meglio prevedere (e pilotare) le mosse dell’avversario.
Ma la partita non si gioca solo sul piano commerciale: si gioca anche e soprattutto sul piano militare. Donald Trump – attaccando in modo così “spettacolare” l’Iran – come si suol dire, ha messo la pistola sul tavolo. E il messaggio a Xi Jinping (o a chiunque ora comandi realmente a Pechino) è senz’altro arrivato forte e chiaro: “non azzardarti a toccare Taiwan”. Perché lo scacchiere asiatico, ormai è evidente, è quello che ora interessa più di tutto agli Stati Uniti.
In questo senso, non devono ingannare gli screzi commerciali tra gli Usa e le arte nazioni del G7: ormai tutti hanno capito che il vero nemico è la Cina, e che la Russia è solo un suo “sottoprodotto”. Il nemico comune, come sempre accade, farà dimenticare gli interessi particolari.
L’attuale escalation tra l’Occidente (che include anche una potenza di prim’ordine come il Giappone, che da anni si sta riarmando di gran carriera) e “l’Est”, è insomma un vero “scontro di civiltà”, come andava di moda dire all’inizio degli anni Duemila. Uno scontro totale: economico, militare e politico. Uno scontro provocato, nonostante le apparenze, dalla dottrina della Guerra Senza Limiti che guida l’azione del Partito comunista cinese nella corsa alla conquista del potere sull’intero pianeta. Credere che tutto si riduca a una semplice guerra commerciale, appare alquanto irrealistico.