Il cosiddetto “panico da dazi” aveva previsto, sbagliando, un’impennata dell’inflazione e di un tracollo economico. Perché il un simile consenso si è rivelato errato? L’esagerata percezione dell’impatto economico dei dazi derivava dalla convinzione che i consumatori americani avrebbero subito l’intero onere di queste misure. Quali sono stati gli errori di questa analisi? Innanzitutto, la maggior parte degli studi ha adottato un calcolo semplicistico, come se le catene di approvvigionamento fossero composte esclusivamente da acquirenti e venditori.
In realtà, le filiere produttive sono estremamente complesse, e gli esportatori devono gestire difficoltà legate a sovrapproduzione e gestione del capitale circolante. Di conseguenza, l’impatto dei dazi tende a distribuirsi tra i numerosi anelli della catena, che includono: trasporto, stoccaggio, distribuzione, produzione, rivenditori e acquirenti finali. Inoltre, molte aziende esportatrici si trovano a gestire problemi strutturali di sovrapproduzione e difficoltà finanziarie legate al capitale circolante: se non riescono a vendere rapidamente i loro prodotti, i debiti aumentano e le perdite nei magazzini possono innescare una serie di fallimenti. Gli analisti più pessimisti hanno commesso l’errore di ignorare che il settore dell’export, in particolare in Cina, soffre di un problema cronico di sovracapacità produttiva e di crescenti difficoltà finanziarie.
Di fatto, non si rileva alcun segnale di un’inflazione fuori controllo. L’indice dei prezzi all’esportazione è cresciuto solo dello 0,1% ad aprile e del 2% su base annua, mentre l’indice dei prezzi all’importazione ha registrato un modesto incremento dello 0,1% nel mese e dello 0,1% rispetto all’anno precedente. Sempre ad aprile, i prezzi dell’indice Ppi (indice dei prezzi alla produzione) per la domanda finale sono scesi dello 0,5%. Su base annua, sia l’indice Ppi generale sia quello core —che misura l’inflazione escludendo i prezzi volatili di cibo ed energia — hanno mostrato un calo rispetto alle rilevazioni precedenti. Le vendite al dettaglio negli Stati Uniti sono aumentate dello 0,1% ad aprile, con un incremento del 5,2% rispetto ad aprile 2024, dopo un robusto aumento dell’1,7% a marzo 2025. L’inflazione, nello stesso mese, ha toccato il livello più basso degli ultimi quattro anni, proprio quando, secondo le stime del consenso, avrebbe dovuto registrare un’impennata a causa dei dazi.
Al contempo, la crescita dei salari ha raggiunto il massimo degli ultimi quattro anni. Ad aprile, l’inflazione è scesa al ritmo più lento dal 2021: i prezzi delle uova sono calati del 12%, e anche quelli di prodotti da forno, carne e pollame sono diminuiti. Gli americani non stanno affrontando l’inflazione apocalittica prevista dagli interventisti.
L’indice dei prezzi al consumo (Cpi) è cresciuto solo dello 0,2%, contro un’attesa dello 0,3%, pari a un tasso annualizzato del 2,3%, il più basso in quattro anni. Inoltre, l’indice Cpi core è aumentato solo del 2,8%, senza mostrare segnali di pressioni inflazionistiche. Il prodotto interno lordo del primo trimestre è risultato positivo: nonostante un calo dello 0,3%, il settore privato è cresciuto dell’1,6% su base annua, mentre la spesa pubblica è diminuita del 5,1%. Nell’ultima settimana, la banca d’affari Jp Morgan ha ritirato la propria previsione di recessione, e il modello Nowcast della Federal Reserve di Atlanta indica una solida crescita del Pil del 2,4% per il secondo trimestre, stima condivisa da Goldman Sachs e Capital Economics.
La chiave per comprendere l’assenza di inflazione risiede nell’analisi degli aggregati monetari. I dazi non causano inflazione. Ci sono altri motivi per criticare i dazi, ma non il loro legame con l’inflazione. Gli operatori di mercato hanno compreso che i dazi sono uno strumento per negoziare accordi commerciali più vantaggiosi e favorire l’apertura dei mercati, piuttosto che una misura esclusivamente protezionistica.
A generare inflazione è invece l’aumento della spesa pubblica, che porta a un’espansione della massa monetaria e della velocità di circolazione del denaro. Tra febbraio e aprile 2025, la spesa in deficit è diminuita del 35% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Sebbene la massa monetaria stia crescendo, lo fa a un ritmo moderato, mentre la velocità di circolazione del denaro è in graduale calo. Il settore pubblico si sta lentamente ridimensionando, mentre quello privato si rafforza: di conseguenza, non vi è un reale rischio di inflazione. L’unico fattore che può far aumentare, consolidare e mantenere elevati i prezzi aggregati è il deprezzamento del potere d’acquisto della valuta, causato da una spesa pubblica fuori controllo. Fortunatamente, la spesa pubblica sta iniziando a moderarsi.
L’economia statunitense si rivela più solida di quanto sembri, e il potere negoziale degli importatori è maggiore di quanto stimato, per due ragioni: la già citata sfida della sovrapproduzione degli esportatori e l’importanza internazionale del mercato statunitense. Gli esportatori non possono sostituire le vendite negli Stati Uniti con altri mercati, neanche con l’Unione Europea, che si presenta come un mercato relativamente debole.
Nei prossimi mesi, è probabile che vengano conclusi nuovi accordi commerciali, e le preoccupazioni degli operatori di mercato si attenueranno significativamente, se non scompariranno del tutto. In definitiva, il panico da dazi ha dimostrato che l’analisi keynesiana era errata e che l’obiettivo dell’amministrazione era ottenere accordi commerciali più favorevoli.
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