Perché lo spread è passato di moda

di Giovanni Donato/Reuters
22 Maggio 2025 12:05 Aggiornato: 22 Maggio 2025 21:05

Negli ultimi quattordici anni, il termine “spread” è diventato una presenza costante nel dibattito pubblico italiano. Nato durante la crisi del debito della zona euro del 2011, quando i rendimenti dei titoli di Stato italiani toccavano livelli insostenibili, il differenziale tra Btp italiani e Bund tedeschi è stato spesso usato come termometro della salute economica italiana, simbolo di vanto o di preoccupazione a seconda delle circostanze. Ma oggi, con il contesto economico profondamente mutato, è lecito chiedersi se questo indicatore mantenga ancora il peso che gli viene attribuito.

La recente discesa dello spread sotto i 100 punti base, un evento raro, ha riacceso l’attenzione. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha interpretato il dato come un segnale di maggiore affidabilità dei titoli italiani rispetto a quelli tedeschi. E come ha osservato il ministro dell’Economia, un differenziale più ristretto implica che i Buoni del Tesoro italiani siano percepiti come meno rischiosi rispetto al passato (oppure, che è aumentato il rischio percepito dei Bund, vista la situazione politica ed economica che sta vivendo la Germania).

Nel 2011, l’ossessione per lo spread aveva in parte una sua ragion d’essere. La Germania era presentata come il faro economico dell’Europa, mentre l’Italia, messa nell’umiliante club dei “Piigs” (cioè Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, ma “pigs” in inglese significa “maiali”) era gravata da un debito pubblico elevato e pagava un alto “dazio” per avere accesso ai mercati finanziari.
Oggi, però, il panorama è cambiato. I rendimenti tedeschi sono in aumento (cioè: la Germania è costretta a indebitarsi a tassi più elevati pur di piazzare all’asta i propri Bund), spinti da piani di spesa per difesa e infrastrutture, mentre fattori internazionali come la minore appetibilità dei titoli del Tesoro americani influenzano i mercati europei. In questo scenario, il confronto tra Btp e Bund ha perso importanza.

Gli economisti sottolineano un punto cruciale: quello che davvero conta per l’Italia non è il divario con la Germania, ma il livello assoluto dei tassi d’interesse. Con un debito pubblico di 3 mila miliardi di euro, pari al 135% del Pil, Roma spende annualmente circa 90 miliardi per pagarlo, un onere che resta pesante anche con uno spread ridotto. Il rendimento dei Btp a 10 anni, intorno al 3,6%, rimane il più alto della zona euro, riflettendo un premio al rischio che gli investitori continuano a richiedere. Viene da chiedersi cosa ci sia alla base della percezione di questo rischio ancora (relativamente) elevato, visto che l’Italia ha sempre pagato, puntualmente e senza eccezione, tutti i propri debiti, anche quando nel nostro Paese, nei primi anni novanta, si facevano saltare in aria i magistrati che combattevano la mafia ed eravamo a un passo dalla distruzione dell’unità nazionale.

Ma certe fluttuazioni, d’altronde, non dipendono solo dalle scelte italiane. Anzi. Movimenti di mercato dettati da un non meglio precisato “sentiment” di rischio o di ricerca di sicurezza, spesso innescato da dinamiche internazionali (a volte speculatorie, a volte politiche, a volte entrambe) possono alterare il differenziale indipendentemente dalla politica economica nazionale. Lo dimostrano gli episodi del passato: nel 2009, sotto Silvio Berlusconi, lo spread oscillava tra 80 e 100 punti base, per poi schizzare a 570 nel 2011; nel 2021, con Mario Draghi, si è poi ristretto sotto i 100 punti, salvo ampliarsi di nuovo l’anno successivo per l’inflazione post-pandemica.

Le politiche economiche di Giorgia Meloni, improntate a una cauta stabilità, hanno senz’altro contribuito a rassicurare i mercati. Ma la riduzione dello spread sembra rispondere più a fattori esterni – come le difficoltà del mercato americano e le aspettative di un indebolimento del dollaro, o l’attuale debolezza dell’ex “Locomotiva d’Europa” – che a meriti esclusivi dell’attuale governo. 

La Germania oggi non è più vista come il modello assoluto di efficienza, ricchezza e rigore fiscale, per cui lo spread appare un indicatore ormai obsoleto. Per cui l’Italia farebbe bene a iniziare a concentrarsi sui fondamentali della propria economia: il debito pubblico, la crescita del Pil e la capacità di attrarre investimenti. 

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