Per anni il termine “globalismo” è stato evitato in senso positivo, poiché la cooperazione internazionale rappresenta un valore. Viaggiare è straordinario, così come la libertà di commerciare e migrare. Perché, allora, l’esercizio della libertà oltre i confini nazionali è diventato tanto criticato e disprezzato? La risposta risiede in complessi intrecci tra Stati, industrie, finanza, strutture governative multinazionali e il controllo esercitato sui cittadini dai regimi.
L’esperienza del Covid-19 ha messo in luce questa dinamica. La risposta è stata pressoché uniforme in tutto il mondo: le nazioni hanno imposto lockdown in modo coordinato, adottando protocolli simili e promuovendo rimedi analoghi. L’Organizzazione mondiale della sanità pareva dettare le linee guida, con le agenzie sanitarie nazionali allineate su ogni aspetto. Il virus stesso sembra essere emerso da ricerche multilaterali su patogeni e contromisure farmaceutiche. Le banche centrali, in uno sforzo congiunto, hanno stampato denaro senza precedenti per scongiurare il collasso economico durante le chiusure forzate. Paesi come Svezia e Nicaragua, che hanno scelto percorsi diversi, sono stati aspramente criticati dai media di tutto il mondo con toni uniformi.
I Parlamenti nazionali sono stati esclusi dalle decisioni iniziali sui lockdown, privando i cittadini del diritto di influire tramite i propri rappresentanti. Nessuno ha votato per la distanza di due metri, la chiusura delle attività o l’obbligo vaccinale, eppure sono stati imposti attraverso decreti amministrativi senza che i sistemi giudiziari intervenissero. In quei mesi, l’idea di democrazia e lo Stato di diritto sono stati accantonati, cedendo il controllo a istituzioni mondiali e sistemi finanziari che hanno assunto un dominio di fatto sul pianeta. Si è trattato di una dimostrazione di potere universale senza precedenti nella Storia.
Non sorprende, quindi, la reazione, incentrata sulla riaffermazione dei diritti delle nazioni e dei loro cittadini. Molti difensori delle libertà — sia di destra che di sinistra — guardano con disagio a questa risposta, chiedendosi se esista un precedente storico per rivendicare la sovranità in nome della libertà. Un tale precedente esiste, legato a un episodio storico poco ricordato.
L’Accordo di Bretton Woods del 1944 — noto per aver regolato il sistema monetario internazionale e istituito il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale — prevedeva inizialmente un’Organizzazione internazionale del commercio, incaricata di gestire i flussi commerciali internazionali. Redatta nel 1944 e codificata nella Carta dell’Avana del 1948, l’Organizzazione internazionale del commercio godeva del sostegno di governi e grandi imprese per essere ratificata come trattato. L’obiettivo era un controllo mondiale del commercio, guidato da élite in nome della globalizzazione.
Il progetto è stato bloccato, non da protezionisti o mercantilisti, ma da sostenitori del libero commercio e libertari economici. A guidare l’opposizione l’economista franco-americano Philip Cortney, autore del libro The Economic Munich (1949). La Carta dell’Organizzazione internazionale del commercio, scriveva, era un sogno burocratico che ignorava le realtà delle economie nazionali, promettendo libero commercio ma imponendo vincoli rigidi di fronte a crisi come inflazione o scarsità. Cortney vedeva nell’Organizzazione internazionale del commercio non la libertà, ma pianificazione centralizzata, corporativismo e commercio gestito – ossia quello che oggi noi chiamiamo “globalismo” – e vi si opponeva fermamente, convinto che tutto questo avrebbe danneggiato il libero commercio e soffocato la sovranità nazionale in un sistema burocratico.
Tra le critiche di Cortney spiccava il sistema di regolazione monetaria, che vincolava le nazioni a un regime di dazi senza possibilità di adeguare le valute ai flussi commerciali. A suo avviso, l’Organizzazione internazionale del commercio avrebbe impedito adattamenti a cambiamenti nei tassi di cambio o a contesti specifici, minando il libero commercio. Sosteneva che l’apertura delle economie alla competizione internazionale dovesse rispettare la governance democratica e i plebisciti nazionali. Un’autorità mondiale che imponesse tali regole avrebbe contraddetto la lotta contro il mercantilismo, favorendo le grandi imprese a scapito delle altre.
Sorprendentemente, questa posizione proveniva da una prospettiva liberale e libertaria, favorevole al libero commercio ma contraria ai metodi globalisti. Ludwig von Mises elogiò il libro di Cortney per la sua capacità di smascherare le fallacie delle dottrine economiche ufficiali. Furono Cortney e i suoi alleati nel mondo degli affari e del giornalismo a far fallire la Carta dell’Avana, relegando l’Organizzazione internazionale del commercio nell’oblio. È fondamentale notare che a opporsi non furono reazionari, socialisti o nazionalisti economici, ma convinti liberali, sostenitori del libero commercio e piccole imprese, timorose di essere travolte da un sistema che oggi chiamiamo globalista. Quella generazione diffidava della burocrazia, in particolare di quella internazionale, consapevole della distanza tra retorica affascinante e realtà problematiche. Non si fidava di chi allora gestiva il potere per creare un sistema commerciale sostenibile.
Il fallimento dell’Organizzazione internazionale del commercio ha poi portato al Gatt, l’Accordo generale sui dazi e il commercio, un’intesa non vincolante, basata sul consenso e focalizzata sui dazi, senza cercare di uniformare le valute. Informale e decentralizzato, il Gatt è durato fino al 1995, quando l’Organizzazione mondiale del commercio è stata introdotta con forte pressione da parte di mass media e multinazionali, riproponendo l’idea dell’Organizzazione internazionale del commercio.
A quel punto, i sostenitori del libero mercato, meno attenti, hanno appoggiato l’Organizzazione mondiale del commercio. Come previsto da Cortney, l’Organizzazione mondiale del commercio è oggi un soggetto marginale, accusato di stagnazione economica, deindustrializzazione, squilibri valutari e instabilità nei conti esteri sostenuti da riserve in dollari. La reazione attuale si manifesta in politiche mercantiliste aggressive. Gli Stati Uniti, principali destinatari di prodotti cinesi, stanno imponendo dazi elevati. Con ironia storica, il New York Times avverte che il reindirizzamento di merci verso l’Europa potrebbe creare uno scenario pericoloso, con il dumping di prodotti a basso costo — ovvero la vendita all’estero a prezzi artificiosamente bassi —che rischia di danneggiare le industrie locali.
L’equilibrio tra sovranità nazionale e libertà è fragile. In passato, gli intellettuali lo riconoscevano, evitando di sacrificare l’una per l’altra. Separare le strutture di governo dal controllo dei cittadini, anche solo tramite plebisciti periodici, porta a conseguenze disastrose, non solo al commercio ma anche in ambiti come la gestione delle malattie infettive e la ricerca sui virus. La rivolta odierna, come Cortney avrebbe previsto, è la risposta inevitabile.
Articolo originale del Brownstone Institute
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