L’attività manifatturiera cinese è crollata più del previsto, segnale che il regime comunista cinese comincia ad accusare colpo dei dazi.
L’indice ufficiale manifatturiero “Pmi” è sceso a 49 punti ad aprile, rispetto a 50,5 di marzo, secondo l’Ufficio Nazionale di Statistica cinese. In Cina, l’indice ufficiale manifatturiero è considerato il dato più importante per valutare lo stato dell’economia. Il Pmi è un numero compreso tra 0 e 100, sopra 50 indica espansione dell’attività manifatturiera, sotto 50 indica contrazione.
L’attuale 49, e il valore più basso toccato dal 2023, inferiore addirittura alla previsione di 49,8, secondo un gruppo di esperti che hanno partecipato a un sondaggio condotto da Reuters. I dati più recenti mostrano un ulteriore calo: i nuovi ordini di esportazione hanno portato l’indice a 44,7, rispetto ai 49 di marzo, il tetto minimo toccato dal 2012, escluso ovviamente il periodo della pandemia. Anche l’indice Pmi dei servizi e delle costruzioni è sceso, passando da 50,8 a 50,4 ad aprile, pur rimanendo sopra la soglia dei 50.
Il calo è cominciato dopo due mesi di espansione dell’attività manifatturiera, gonfiata dal regime per contrastare i dazi, insieme a nuovi stimoli fiscali, un aumento della spesa pubblica e una serie di misure di allentamento monetario per sostenere l’economia. Ma i dati più recenti suggeriscono che le contromisure del Pcc non servano a molto, e che i dazi americani del 145% stiano iniziando a colpire duramente l’economia cinese. I dazi, infatti, si aggiungono alle già grosse difficoltà della Cina, in lotta contro la deflazione causata da una mancata crescita dei redditi e a una prolungata crisi immobiliare dopo il crollo di Evergrande.
Sebbene l’economia cinese abbia ufficialmente raggiunto l’obiettivo di crescita del 5% lo scorso anno, crescono i dubbi sull’affidabilità dei dati economici dichiarati dal Pcc. Secondo Gao Shanwen, direttore della finanziaria Sdic Securities, la crescita del Pil cinese potrebbe essere stata sovrastimata fino al 10% tra il 2021 e il 2023.
Secondo un’indagine condotta da Caixin e S&P Global e pubblicata il 30 aprile, c’è stato un crollo dei nuovi ordini di esportazione e un rallentamento dell’attività manifatturiera cinese. Secondo l’indagine «le interruzioni commerciali dovute ai dazi hanno contribuito al primo grosso calo degli ordini di esportazione in tre mesi» e «la scarsa domanda estera ha frenato la crescita degli ordini, che sono sì sono aumentati, ma molto a rilento, con l’incremento più lento da sette mesi a questa parte». E gli esperti si aspettano che ulteriori effetti a cascata dei dazi si faranno sentire soprattutto nel secondo e terzo trimestre.
In tutto questo, lo yuan cinese si è indebolito rispetto al dollaro, e le banche Goldman Sachs e Ubs, insieme al Fondo Monetario Internazionale, non sono affatto ottimiste sulla crescita economica cinese nel 2025 e 26. Il grande investitore americano Kyle Bass, scrive su X come il recente calo del rendimento dei titoli di Stato cinesi negli ultimi 10 anni riveli una spaccatura tra la fiducia pubblica e le affermazioni del regime sull’economia cinese: «É impossibile crescere economicamente, raggiungendo il 5,4%, quando i rendimenti obbligazionari crollano come fosse una catastrofe economica»