Dopo due settimane di assenza dalla scena pubblica, il segretario generale del Partito comunista cinese Xi Jinping è riemerso il 4 giugno, per ricevere a Pechino il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko nella sua residenza ufficiale. Un incontro insolitamente sobrio, descritto dalla propaganda del regime come «familiare» e informale, lontano dal clamore delle visite di Stato. La copertura mediatica è stata minima, quasi a voler sottolineare il basso profilo dell’evento.
Questi segnali, uniti a varie fonti che descrivono Xi come una figura ormai solo simbolica e svuotata di ogni potere, hanno riacceso le speculazioni sui movimenti al vertice del Pcc. Alcuni analisti, più prudenti, ipotizzano che Xi stia perdendo potere al punto di vedersi costretto a fare i conti con vincoli interni che ne limitano l’autorità su dossier cruciali come i negoziati con gli Stati Uniti. In ogni caso, Xi Jinping, non è più il capo indiscusso del Partito comunista cinese.
In un’intervista rilasciata a Epoch Times Usa il 3 giugno, Wu Zuolai, studioso e commentatore politico residente in America, ha offerto un’analisi lucida di quello che considera un cambiamento significativo nello status di Xi Jinping all’interno del Partito: dopo la riunione del Terzo Plenum di partito del luglio 2024, l’autorità dell’ormai ex autocrate si è sensibilmente indebolita con l’emergere di una nuova forza guidata da fazioni riformiste e moderate: «Sembra essersi formato un gruppo centrale temporaneo che ha di fatto esautorato Xi». Questa corrente riformista interna alla dittatura cinese, trarrebbe la propria forza dal peso politico di leader formalmente in pensione come Wen Jiabao e Hu Jintao (segretario generale del Pcc prima di Xi), con il sostegno di alcuni membri del Politburo e della Conferenza consultiva politica del popolo cinese, ossia il principale organo consultivo del regime. «Basta guardare il rimescolamento di incarichi – spiega l’analista – non si muovono solo i fedelissimi di Xi, ma figure da ogni direzione, formando una rete di contrappesi interni […] Molti di quelli che lui aveva promosso sono stati rimossi, a dimostrare un lavoro sistematico in atto per smantellare le basi del suo potere». Wu descrive questo cambiamento non come una ribellione aperta, ma come una ridistribuzione strisciante del potere, orchestrata attraverso avvicendamenti e aggiustamenti politici volti a frenare il delirante culto della personalità di Xi (che ultimamente aveva iniziato a paragonarsi persino a Mao Zedong) e le sue scelte più estreme.
A confermare queste analisi, durante la recente assenza dalle scene di Xi altri membri del Comitato permanente del Politburo, come il premier Li Qiang, hanno continuato a presenziare a eventi ufficiali. E, come a voler gettare benzina sul fuoco delle speculazioni, il Partito non ha fornito notizie sulla consueta riunione mensile del Politburo, prevista per fine maggio.
Diversi altri analisti condividono questa lettura. Anche Tang Jingyuan, commentatore politico, ha notato il silenzio degli organi di propaganda (ovvero praticamente tutti i mass media cinesi) durante l’assenza di Xi Jinping: «Se Xi fosse ancora in pieno controllo, la macchina della propaganda lavorerebbe a pieno regime per riaffermarne l’autorità, come sempre accade in Cina. E invece, è sparito per oltre dieci giorni, e la sua presenza mediatica è diminuita. Questo suggerisce che qualcosa di grosso stia accadendo ai vertici del Partito».
XI JINPING NON È PIÙ L’INTERLOCUTORE
Gordon Chang, noto esperto di Cina, ritiene che un’eventuale perdita di autorità di Xi possa compromettere i negoziati commerciali con Donald Trump. L’analisi di Chang è spietata: «Non facciamoci illusioni – ha scritto il 2 giugno su X – Xi ha perso molto potere di recente, e con ogni probabilità non ha più l’autorità per trattare». Chang, giurista formatosi a Cornell è noto per le sue analisi critiche sul regime cinese.
Qui le analisi dei due analisti, Chang e Wu, convergono: la strategia di Trump basata su un dialogo diretto con Xi Jinping per risolvere le tensioni bilaterali, potrebbe non stare tenendo conto di questi conflitti interni al regime. Trump sembra infatti considerare ancora Xi il principale ostacolo nei negoziati, ignorando i profondi riallineamenti politici in corso a Pechino. «Nell’attuale clima politico, Washington dovrebbe valutare approcci audaci e inediti – dice Wu – ad esempio, potrebbe spingere per un’ammissione di Taiwan alle Nazioni Unite». Una mossa del genere rafforzerebbe i riformatori all’interno del Partito, indebolendo ulteriormente Xi e limitandone l’aggressività, aprendo di conseguenza la strada a negoziati più concreti.
Negli ultimi mesi, d’altronde, la Cina ha assistito a una serie di avvicendamenti insoliti. Il Partito ha sostituito i vertici responsabili per gli affari di Taiwan e Hong Kong, e il 2 giugno è stata annunciata la morte di Xu Qiliang, militare di alto rango, suscitando speculazioni sui social sulle circostanze sospette del decesso (ufficialmente avvenuto per cause naturali). All’evento Shangri-La 2025 del 30 maggio –1° giugno, poi, la Cina ha inviato un militare di rango insolitamente basso. Un segnale anomalo.
Questi eventi indicherebbero tutti un’escalation della lotta di potere interna, che richiamerebbe perfino le tensioni precedenti alla protesta di Piazza Tienanmen. Il massacro di piazza Tienanmen, avvenuto il 4 giugno 1989, vide l’esercito del Pcc reprimere con la violenza un movimento studentesco filodemocratico, causando migliaia di morti e feriti: le mitragliatrici montate sui mezzi militari sparavano sui ragazzi radunati nella piazza e verso le finestre dei palazzi intorno, per impedire alle persone di essere testimoni di un massacro di cui, comunque, il mondo intero era testimone incredulo.
I prossimi mesi saranno decisivi per il futuro della Cina, per le sue politiche interne ed estere. Di fronte a sconvolgimenti di una simile portata, agli Stati Uniti strumenti normali come sanzioni economiche e trattative, con un leader probabilmente ridotto ormai a un fantoccio, non basteranno a modificare la strategia del regime: secondo i diversi analisti sentiti da Epoch Times, serve un approccio più deciso, che includa il sostegno aperto alla sovranità di Taiwan e una pressione internazionale coordinata su Pechino, per approfondire le divisioni interne al Partito. Divide et impera dicevano 2 mila anni fa i romani. Un principio semplice, ma che funziona sempre.