Un prigioniero di guerra torturato e la scelta di perdonare

di Redazione ETI/Walker Larson
9 Maggio 2025 22:26 Aggiornato: 9 Maggio 2025 22:26

«Alla fine della guerra, sarei stato felice di ucciderlo», ha dichiarato Eric Lomax al New York Times nel 1995. Lomax parlava di un interprete giapponese che lo aveva torturato quando era prigioniero durante la Seconda Guerra Mondiale. Lomax, giovane ufficiale britannico del Royal Corps of Signals, era stato catturato durante l’invasione di Singapore nel 1942 e costretto a marciare verso la prigione di Changi.

Da Changi fu trasferito a Kanchanaburi, in Thailandia, per lavorare sulla famigerata Ferrovia della Birmania. Chiamata anche «Ferrovia della morte», questa linea di trecento miglia fu costruita tra la Thailandia e la Birmania (oggi Myanmar) per sostenere le forze giapponesi che operavano in quel Paese. Quasi centomila uomini morirono durante la costruzione della ferrovia, ridotti in fin di vita dal lavoro estenuante, dalla malnutrizione e dalle malattie. Di quei centomila, 12 mila erano prigionieri di guerra britannici, australiani, olandesi e americani.

Lomax non aveva idea del destino che lo attendeva, quando si arruolò nel Royal Corps of Signals, l’unità incaricata delle comunicazioni militari, poco prima della Seconda guerra mondiale. Prima di arruolarsi, all’età di vent’anni, Lomax aveva lavorato nel servizio civile come addetto allo smistamento delle poste e come telegrafista a Edimburgo, suo luogo di nascita. Una volta entrato nei Signals, Lomax raggiunse il grado di sottotenente.

LA TORTURA

Lavoratori prigionieri di guerra davanti al ponte sul fiume Mae Klong (ribattezzato fiume Kwai Yai nel 1960), nel settembre 1945 circa, a Tamarkan, in Thailandia. (Pubblico dominio). Ritratto modificato e ritagliato di Eric Lomax dalla copertina dell’edizione 2014 di The Railway Man. Leicester: Charnwood. 

Dopo la cattura, la sua esperienza nelle comunicazioni lo mise nei guai. I giapponesi scoprirono un ricevitore radio che Lomax aveva costruito con pezzi di ricambio e fu condannato per «attività anti-giapponesi». Alla scoperta seguirono brutali pestaggi, interrogatori e torture, compreso l’annegamento simulato, in conseguenza dei quali riportò diverse fratture ossee. Uno dei torturatori, un interprete di nome Takashi Nagase, restò particolarmente impresso nella memoria del sottotenente.

Lomax rimase in prigionia tre anni e mezzo prima di essere liberato alla fine della guerra. Vide morire molti suoi compagni a causa del trattamento disumano e delle terribili condizioni di vita. Le torture e le sofferenze subite lasciarono in lui danni psicologici permanenti: in un certo senso, nella mente di Lomax, la tortura continuò, anche dopo la fine della guerra e il ritorno a casa.

Prigionieri di guerra australiani e olandesi in Thailandia, intorno al 1943, affetti da beriberi (carenza di vitamina B/tiamina). Australian War Memorial, Canberra. Pubblico dominio

Daniel Phillpott, in Pace giusta e ingiusta: Un’etica della riconciliazione politica, scriveva: «Dopo essere tornato nella sua casa a Edimburgo nel 1945, sposò la fidanzata e iniziò una carriera, ma era traumatizzato, non capendo ancora “che ci sono esperienze da cui non si può uscire e che non c’è prescrizione sugli effetti della tortura”».

Mancava di autostima, non riusciva a fidarsi degli altri e si chiudeva in se stesso. Scriveva: «La gente pensava che stessi affrontando la situazione, ma dentro di me stavo cadendo a pezzi». Lomax convisse per quarant’anni col trauma psicologico delle torture, con un odio profondo per gli uomini che gli avevano inflitto quelle ferite e con un desiderio irriducibile di vendetta. Negli anni Ottanta iniziò a desiderare di vendicarsi di Nagase.

In ogni caso, nel 1987 decise di intraprendere una terapia. Lomax fu il primo paziente della Fondazione medica per le vittime della tortura di Londra, sotto le cure della direttrice della fondazione, Helen Bamber, che lo aiutò a elaborare quanto gli era accaduto. Tuttavia, Lomax desiderava sempre rifarsi sugli ex carcerieri e fare loro del male, secondo le sue stesse parole: «l’idea della vendetta era ancora molto viva in me».

Le persone che gli stavano vicino gli dicevano che doveva perdonare i suoi nemici, ma Lomax rispondeva: «La maggior parte delle persone che danno consigli sul perdono non hanno vissuto il tipo di esperienza che ho avuto io. Non ero incline a perdonare, non ancora, probabilmente mai».

DI FRONTE AL TORTURATORE

Alla fine Lomax venne a sapere che Takashi Nagase era sopravvissuto alla guerra. Le stelle si erano allineate: l’occasione per vendicarsi finalmente si presentava, ma le informazioni su Nagase facevano intendere che anche quell’uomo era stato profondamente segnato dalle vicende della guerra. Si diceva che si fosse pentito del male commesso, che si fosse convertito al buddismo e che avesse dedicato la vita a fare opere di carità, anche aiutando i veterani britannici. Lomax, tuttavia, era scettico rispetto a queste affermazioni, ritenendo che la conversione di Nagase fosse insincera, e continuava a desiderare la vendetta.

In quel periodo, la seconda moglie di Lomax, Patti, scrisse a Nagase parlandogli del marito. L’ex torturatore rispose con parole compassionevoli, spiegando il cambiamento che era avvenuto in lui, e Lomax cominciò a credere che il pentimento di Nagase fosse autentico.

Secondo le sue stesse parole: «in quel momento persi la dura corazza che mi avvolgeva e cominciai a pensare l’impensabile: che avrei potuto incontrare Nagase faccia a faccia, semplicemente e con buona volontà. Il perdono divenne più di un’idea astratta: ora era una possibilità reale».

Copertina dell’edizione 2014 del libro di Eric Lomax The Railway Man. (Leicester : Charnwood) e copertina di Crosses and Tigers and the Double-Edged Dagger di Nagase Takashi, 2010. Sheffield: Paulownia Press Ltd.

Inoltre, Lomax aveva letto un articolo che descriveva il profondo senso di colpa di Nagase per il trattamento inflitto in particolare a un prigioniero di guerra britannico, e Lomax capì che quel prigioniero era lui.
Finalmente, nel 1993, i due ex nemici accettarono di incontrarsi a Kanburi, in Thailandia, presso il ponte sul fiume Kwai, che era parte della ferrovia su cui Lomax aveva lavorato tanti anni prima.

Nel libro di memorie The Railway Man, Lomax racconta questo incontro quasi surreale, in preda a tante emozioni contrastanti: «Da un centinaio di metri di distanza lo vidi camminare sul ponte; non poteva vedermi. Era importante per me avere quest’ultimo momentaneo vantaggio su di lui: mi preparava, anche ora che non volevo più fargli del male».

Infine, Lomax si diresse a salutare Nagase, che fece un inchino formale, «col volto teso e turbato». Lomax fece un passo avanti, prese la mano di Nagase, la cui testa arrivava a malapena all’altezza della sua spalla. Gli disse in giapponese: «Buongiorno, signor Nagase, come sta?». Nagase, tremando e piangendo, continuava a ripetere: «Mi dispiace, mi dispiace molto».

Lomax ricorda: «Non provavo alcuna simpatia per quest’uomo, eppure Nagase, grazie alla sua totale umiltà, ha capovolto la situazione. Nei giorni successivi abbiamo trascorso molto tempo insieme, parlando e ridendo, e abbiamo scoperto di avere molto in comune». Lomax si rese conto che Nagase era distrutto quanto lui, anche se in modo diverso.

«Non vedevo più il motivo di punire Nagase rifiutandomi di incontrarlo e di perdonarlo. Quello che contava erano i nostri rapporti nel presente, il suo evidente rammarico per quello che aveva fatto e il nostro reciproco bisogno di dare al nostro incontro un significato che andasse oltre l’insensatezza della crudeltà. Valeva sicuramente la pena recuperare quanto più possibile dalle ferite subite dalle nostre vite».

Il loro incontro è culminato con la lettura da parte di Lomax di una lettera ufficiale di perdono a Nagase. I due uomini concordarono di restare in contatto, divenendo persino buoni amici. Uno dei momenti più bui e desolanti del XX secolo ha ceduto alla luce, trasformandosi in una voce di speranza e di riconciliazione, di avvicinamento e di dialogo che ha trasceso le ferite più profonde.

Dopo l’incontro in Thailandia, Lomax è riuscito finalmente a trovare una risposta e un po’ di pace. «Il perdono è possibile» ha scritto. Lomax, scomparso nel 2012, ha capito che persistere all’infinito nella rabbia e nella vendetta non porta alla guarigione: «Prima o poi l’odio deve finire».

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