Il 20 luglio 1969, Neil Armstrong e Buzz Aldrin sono stati i primi esseri umani a calpestare la superficie lunare, descrivendola come una «magnifica desolazione». Tra il 1969 e il 1972, gli Stati Uniti hanno portato dodici astronauti sulla Luna grazie a sei missioni Apollo, conquistando l’ammirazione del mondo e l’invidia di Mosca. Eppure, quel «grande passo per l’umanità», come lo ha definito Armstrong, rischia oggi di restare un gesto isolato, se Washington rinuncerà alla propria eredità spaziale. Il programma Artemis della Nasa, pensato per riportare astronauti americani sulla Luna e stabilirvi una presenza permanente, è in difficoltà. Tagli di bilancio, licenziamenti – anche ai vertici – e la perdita di competenze cruciali hanno causato ritardi e ridimensionamenti.
Nel frattempo, Pechino accelera. Il regime comunista cinese punta a inviare astronauti sulla Luna entro il 2030 e a costruire una stazione di ricerca internazionale negli anni successivi. Mentre la Cina avanza, gli Stati Uniti sembrano arretrare, smentendo le voci di una nuova «corsa spaziale» come quella degli anni ’60. Più che una competizione, si tratta di un’occasione mancata: la Nasa non è nemmeno pronta a partire. Ora spetta al nuovo amministratore ad interim, Sean Duffy, trasformare Artemis in un progetto capace di rilanciare la scienza e la cultura, riaffermando la grandezza americana.
PERCHÈ TORNARE SULLA LUNA?
Di fronte a priorità interne e sfide internazionali, con risorse limitate, è legittimo chiedersi se abbia senso puntare di nuovo alla Luna. Ma la domanda più urgente è cosa rischia di perdere Washington rinunciando.
Primo, le risorse. Le missioni Apollo e quelle robotiche successive hanno rivelato che la Luna custodisce ricchezze ancora inesplorate: crateri in ombra ricchi di ghiaccio d’acqua – trasformabile in ossigeno, acqua potabile e carburante – minerali di terre rare e, soprattutto, l’elio-3. Quest’ultimo, quasi assente sulla Terra, è essenziale per la fusione nucleare, la criogenia, l’imaging medico e la sicurezza nazionale, grazie al suo impiego nei rilevatori di neutroni.
L’assenza di leggi, confini o diritti di proprietà rende la Luna un territorio di opportunità, paragonabile all’Alaska acquistata nel 1867 dal ministro degli Esteri Usa, William Seward, per 7 milioni e 200 mila dollari. All’epoca considerata una follia, si è rivelata un giacimento d’oro e petrolio. La Luna potrebbe offrire ricchezze simili, senza i vincoli della burocrazia terrestre.
Secondo, il vantaggio militare. Se Apollo 11 è stata una missione pacifica, nulla garantisce che Pechino adotti lo stesso approccio. Gli strateghi militari considerano la Luna un’altura strategica extraterrestre, da cui si potrebbero minacciare obiettivi terrestri o satelliti. Una presenza americana forte servirebbe a prevenire la sua militarizzazione, affidando a Washington – per la sua credibilità internazionale – un ruolo di garanzia e controllo.
Terzo, l’innovazione scientifica. La corsa spaziale degli anni ’60 ha generato tecnologie rivoluzionarie: dispositivi cordless, microchip, Gps. Un ritorno sulla Luna potrebbe produrre scoperte altrettanto innovative. Inoltre, il satellite conserva una memoria geologica intatta, priva di attività tettonica: studiarla aiuterebbe a comprendere meglio la storia del nostro pianeta. Un’impresa degna di una grande nazione.
Nel 2010, Neil Armstrong, parlando a una commissione del Senato, ha ricordato: «L’America è rispettata per aver imparato a navigare in questo nuovo oceano ma, se la leadership acquisita grazie ai nostri investimenti verrà lasciata svanire, altre nazioni colmeranno il vuoto». Apollo 11 è stato possibile grazie all’unione di governo, industria e mondo accademico, e al sostegno di un presidente determinato e di un Parlamento coeso. Per restare grande, l’America deve rilanciare il programma Artemis. Un nuovo programma lunare, ambizioso e risoluto, stimolerebbe progresso economico, sicurezza nazionale e innovazione, riaffermando la leadership americana nello spazio e sulla Terra.
Articolo originale da RealClearWire
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