Perché non vale più la pena fare business in Cina

di Redazione Eti/Sean Tseng
27 Luglio 2025 20:53 Aggiornato: 27 Luglio 2025 20:53

Il 14 maggio 2025, un tribunale di Pechino ha condannato Zhao Weiguo, ex presidente di Tsinghua Unigroup, alla pena di morte (con sospensione per due anni) per corruzione e appropriazione indebita. La vicenda, riportata dall’emittente di regime Cctv, non solo ha segnato la caduta di un magnate tecnologico un tempo celebrato, ma ha anche messo in guardia le imprese occidentali attive in Cina.

Fondata nel 1988 come “costola” dell’Università Tsinghua di Pechino, la Tsinghua Unigroup ambiva a diventare un leader nazionale nei semiconduttori. Sotto la guida di Zhao Weiguo, dal 2009, l’azienda ha intrapreso un’aggressiva campagna di acquisizioni, tra cui la francese Linxens per 2 miliardi e 226 milioni di euro nel 2018, Spreadtrum Communications e RDA Microelectronics, sostenuta dal Fondo Nazionale per l’Industria dei Circuiti Integrati, noto come “Big Fund”. Ma Zhao ha poi investito anche in settori non strategici, come immobiliare e gioco d’azzardo online, portando Unigroup al default per 198 milioni di dollari (circa 169 milioni di euro) nel 2020 e alla bancarotta nel 2021. Nel 2022, l’azienda è stata quindi rilevata da Beijing Zhiguangxin Holding, di proprietà statale. Hsueh Tsung-chih, ex manager di Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, ha denunciato la corruzione di Unigroup, accusando Zhao di aver imposto fornitori propri all’azienda, in violazione delle norme sulle gare d’appalto. In un caso, un’azienda è stata acquisita per 2 miliardi di yuan (circa 250  milioni di euro) contro un valore reale di 900 milioni di yuan (circa 107 milioni di dollari). Hsueh ha poi lasciato l’azienda nel 2018, definendola «corrotta fino al midollo».
Il tribunale di Jilin ha poi accertato che Zhao aveva sottratto oltre 470 milioni di yuan (circa 56 milioni di dollari) di beni pubblici, causando perdite per 890 milioni di yuan (circa 106 milioni di dollari).

Lan Shu, analista statunitense di affari cinesi, ha spiegato che il caso Unigroup riflette una precisa strategia del Partito comunista cinese, e cioè quella di attirare imprese straniere con l’accesso al mercato per poi estorcerne la tecnologia e favorire intermediari fedeli al regime. Questo schema, emerso negli anni ’90 con le terre rare, si è ripetuto anche nei semiconduttori. Fino al 2022, le joint venture obbligatorie in settori come l’automotive hanno costretto aziende come Volkswagen e Hewlett Packard a cedere la propria tecnologia. Nel 2015, Hp ha venduto il 51% delle sue attività cinesi a Tsinghua Holdings per 1 miliardo e 970 milioni di euro, perdendo il controllo del mercato.
Un’analisi del 2024 dell’Istituto Kiel per l’Economia Mondiale ha evidenziato che i sussidi statali cinesi, pari a 221 miliardi di euro nel 2019, superano da tre a nove volte la media Ue o Ocse. Byd, ad esempio, ha ricevuto 1 miliardo e 110 milioni di euro in sussidi diretti e oltre 4 miliardi di euro in rimborsi fiscali tra il 2013 e il 2023.

Inoltre i tribunali (che ovviamente agiscono sotto il più assoluto controllo del regime) invalidano spesso i brevetti stranieri: nel 2020, sono stati riscontrati oltre 7 mila casi di invalidazione, circa il 60% dei quali erano brevetti, e in buona parte di proprietà estera. Fare affari col Partito comunista cinese è «come bere veleno per placare la sete», osserva eloquentemente Hsueh Tsung-chih, suggerendo caldamente agli investitori stranieri di ponderare con estrema attenzione i rischi di fare attività d’impresa nella dittatura comunista cinese. E d’altra parte, nonostante l’appeal del mercato cinese non sia ancora del tutto svanito, la crisi economica interna, la guerra commerciale con l’Occidente, la corruzione onnipresente e la stretta normativa del regime ormai ne riducono sensibilmente l’attrattiva.

 

Iscriviti alla nostra newsletter - The Epoch Times