Perché anche l’Accordo di Ginevra fra Usa e Cina è destinato a fallire

di Tamuz Itai per ET Usa
22 Luglio 2025 21:07 Aggiornato: 22 Luglio 2025 21:07

All’inizio del 2025, Stati Uniti e Cina hanno firmato un’intesa presentata come una svolta: un nuovo accordo commerciale, un temporaneo allentamento dei dazi, un cauto ritorno alla stabilità. Ribattezzato Accordo di Ginevra, ha conquistato le prime pagine dei mercati mondiali. Ma dietro l’entusiasmo aleggia una domanda, sussurrata dai funzionari e gridata dagli scettici: quanto passerà prima che Pechino lo violi? Non è cinismo, ma consapevolezza storica. Il Partito comunista cinese non ha solo una cattiva reputazione nel rispettare gli accordi internazionali: vanta un curriculum impeccabile di inadempienze. Il Pcc segue sempre lo stesso schema. Firma accordi sotto pressione, li viola appena il vantaggio si sposta dalla sua parte, nega ogni colpa e accusa l’altro interlocutore. Questo ciclo si ripete ovunque: commercio, diplomazia, tecnologia, accademia, sicurezza. Il risultato non è solo una promessa infranta, ma un rischio strutturale.

Quando la Cina è entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, i leader occidentali hanno salutato l’evento come l’inizio di una stagione di riforme. In cambio dell’accesso ai mercati mondiali, Pechino ha promesso di eliminare i sussidi industriali, aprire settori alla concorrenza e adottare pratiche commerciali trasparenti. In realtà, il Pcc ha rafforzato l’economia centralizzata: le imprese statali hanno continuato a ricevere sussidi, i dazi sono stati sostituiti da barriere burocratiche e, in settori come le terre rare, Pechino ha limitato le esportazioni, costringendo le aziende straniere a localizzare la produzione e cedere tecnologie.
Quando la Cina ha perso la sua prima grande disputa proprio sulle terre rare, ha capito che violare le regole comportava un lungo periodo di tolleranza e costi minimi.

Nel 2020, durante l’escalation delle tensioni commerciali, l’amministrazione Trump ha siglato il cosiddetto accordo di Fase Uno con la Cina. Pechino si impegnava ad aumentare drasticamente le importazioni di beni americani, proteggere la proprietà intellettuale e fermare i trasferimenti forzati di tecnologia. Il risultato è stato prevedibile: secondo i dati del Rappresentante commerciale Usa, la Cina non ha raggiunto gli obiettivi di acquisto, mancando il traguardo di oltre 200 miliardi di dollari. Lo spionaggio industriale è proseguito e le aziende americane hanno continuato a subire pressioni per condividere tecnologie con partner cinesi. Mentre Washington documentava le violazioni, Pechino ripeteva: «Va tutto bene, i problemi sono colpa di Washington».

E il comportamento del Pcc non cambia a seconda della geografia. Nel 2020, dopo anni di negoziati, l’Unione europea e la Cina hanno concluso l’Accordo globale sugli investimenti. L’inchiostro non si era ancora asciugato che Pechino ha imposto sanzioni a parlamentari europei critici verso il trattamento della minoranza etnica uigura. Il Parlamento europeo ha congelato la ratifica e l’accordo è rimasto in sospeso. Nel Sud-est asiatico, la Cina promette da oltre 20 anni di finalizzare un Codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale con le nazioni dell’Asean. Nel frattempo, ha militarizzato isole artificiali ed esteso le sue pretese marittime a scapito di Vietnam, Filippine e Malesia, continuando a “negoziare”. Per gli Stati più piccoli, i memorandum bilaterali con Pechino si sono rivelati cavalli di Troia: promesse di infrastrutture o commercio in cambio di silenzio politico e dipendenza economica.

Ma l’inaffidabilità del Pcc si estende anche a scienza, cultura e sicurezza. Nel 2015, la Cina si era impegnata a cessare il furto informatico promosso dallo Stato per scopi commerciali. Entro un anno, i Servizi segreti Usa hanno registrato la ripresa delle operazioni di hacking contro aziende della difesa degli Stati Uniti. Nel mondo accademico, Pechino ha lanciato gli Istituti Confucio come centri di scambio culturale e apprendimento linguistico. In realtà, si sono trasformati in strumenti di censura, propaganda e sorveglianza, portando alla chiusura di decine di sedi in tutto il mondo. Il caso più eclatante resta Hong Kong. Nel 1984, un trattato con il Regno Unito garantiva il principio «un Paese, due sistemi» per 50 anni Con la legge del 2020, quel principio è stato abolito, il dissenso è stato dichiarato reato e l’autonomia della città è finita con decenni di anticipo. Non si tratta di episodi isolati, ma di una visione strategica in cui gli accordi non sono vincoli fondati sul rispetto reciproco, ma strumenti tattici.
Nel mondo islamico esiste il concetto di hudna: una tregua usata non per chiudere un conflitto, ma per riorganizzarsi e attaccare di nuovo. L’approccio del Pcc alla diplomazia segue la stessa logica. Firma accordi per guadagnare tempo, manipolare l’opinione pubblica o dividere alleanze: agisce più come forza rivoluzionaria che come partner rispettoso delle regole.

La domanda è inevitabile: perché la comunità internazionale continua a trattare questi accordi come se fossero stipulati in buona fede? Il vero rischio non è che l’accordo commerciale Usa-Cina fallisca, ma cosa succederà quando fallirà. Se Pechino limiterà di nuovo l’export di terre rare o magneti essenziali per veicoli elettrici e sistemi missilistici, non sarà solo una crisi diplomatica, ma uno shock alla catena di approvvigionamento. Senza alternative costruite per tempo, le conseguenze saranno disastrose. Le violazioni del Pcc non sono rischi teorici, ma minacce concrete, economiche e immediate.

Qualcuno potrebbe sostenere che questa volta sarà diverso, perché la leadership americana è cambiata. La seconda amministrazione Trump potrebbe negoziare con più durezza e reagire più rapidamente. Ma al Pcc non serve l’ingenuità: gli basta l’eccesso di fiducia. Anche i leader più determinati si confrontano con un sistema statale-partitico abituato a ritardare, confondere e colpire tramite canali non ufficiali. Quando la violazione diventa evidente, il danno è già fatto e la colpa, spesso, è stata abilmente deviata. Gli Stati Uniti devono prepararsi all’inevitabile, con la consapevolezza che l’accordo sarà violato prima del previsto e agire di conseguenza. Il che significa rafforzare la capacità interna in settori strategici come terre rare, semiconduttori e farmaci, Introdurre meccanismi automatici di controllo con sanzioni effettive, creare alternative con alleati come India, Australia, Giappone e Unione europea, garantire trasparenza pubblica sui flussi commerciali e sui dati di conformità.

In breve: occorre aspettarsi il tradimento e renderlo irrilevante. Questo accordo non è un trionfo diplomatico, ma una prova per capire se Washington ha compreso le regole del gioco. In ogni negoziato, la vera questione non è cosa sia scritto sulla carta, ma chi lo firmi e cosa abbia fatto in passato. La Storia ha già dato la sua risposta. Ora è tempo di agire di conseguenza.


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