Quindici Paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno diffuso una dichiarazione in cui chiedono la liberazione immediata di tutte le persone ingiustamente incarcerate dal Partito comunista cinese “colpevoli” di aver semplicemente esercitato i propri diritti fondamentali.
Nel documento si evidenzia come il sistema detentivo, il lavoro forzato, la sorveglianza di massa e le restrizioni alle espressioni religiose e culturali perpetrate dalla dittatura comunista cinese siano motivo di profonda preoccupazione. Il testo sottolinea inoltre come siano oggetto di repressione minoranze etniche e religiose quali «uiguri e altre comunità musulmane, cristiani, tibetani e praticanti del Falun Gong», perseguitate dal regime attraverso crimini orrendi che variano dalla «separazione dei minori dalle famiglie» alle «torture».
I governi firmatari hanno inoltre espresso particolare apprensione per il progressivo smantellamento delle libertà civili consolidate e dello Stato di diritto anche a Hong Kong, denunciando poi «l’emissione di mandati d’arresto e ricompense contro persone al di fuori del territorio per aver esercitato il proprio diritto alla libertà d’espressione». La repressione di giornalisti, difensori dei diritti umani e avvocati, sia all’interno che perfino al di fuori della Repubblica popolare cinese, «rappresenta un esempio evidente di un clima di intimidazione volto a soffocare qualsiasi forma di dissenso». «Si richiede alla Repubblica popolare cinese – prosegue l’appello – di disporre la liberazione immediata di tutte le persone detenute ingiustamente per il solo fatto di aver esercitato i propri diritti umani e le libertà fondamentali, pilastri irrinunciabili della legittimità istituzionale e della credibilità internazionale, e di adempiere pienamente agli obblighi previsti dal diritto internazionale».
Oltre agli Stati Uniti, hanno aderito alla dichiarazione Albania, Australia, Repubblica Ceca, Estonia, Israele, Giappone, Lettonia, Lituania, Macedonia del Nord, Palau, Paraguay, San Marino, Ucraina e Regno Unito. Particolarmente stridente è però l’assenza sia dell’Ue che di tutti i singoli Stati membri. Infatti, i Paesi firmatari hanno sollecitato i membri delle Nazioni Unite a esortare il Partito comunista cinese ad affrontare le violazioni dei diritti umani e a promuovere una reale assunzione di responsabilità.
L’appello internazionale giunge a pochi giorni dalla notizia dell’arresto formale di 18 pastori e responsabili della Chiesa Zion (una delle più numerose congregazioni cristiane non ufficiali in Cina) tra cui il fondatore Ezra Jin, in carcere dagli inizi di ottobre nell’ambito di una vasta operazione repressiva coordinata in diverse città.
In Cina, solo le chiese riconosciute e registrate presso gli organismi del regime possono esercitare liberamente culti e attività: chiunque pratichi la propria fede al di fuori dei circuiti autorizzati dalla dittatura comunista viene perseguitato, e il regime obbliga perfino i sacerdoti e altri esponenti religiosi a diffondere l’ideologia marxista, oltre a imporre la rimozione dei crocifissi e promuovere l’“adattamento” delle dottrine religiose all’integralismo dogmatico del partito comunista.
L’appello dei quindici governi inoltre si inserisce profondamente nel contesto della barbara persecuzione della via di coltivazione spirituale di scuola buddista del Falun Gong (anche noto col nome di Falun Dafa), una disciplina incentrata sui principi di verità, compassione e tolleranza. Nella città di Jinan, nella Cina orientale, quasi quaranta praticanti del Falun Gong infatti sono stati arrestati tra la fine di settembre e novembre, e almeno 16 attualmente risultano ancora in stato di detenzione.
Per quanto riguarda Hong Kong invece, ormai non ci sono praticamente differenze fra l’ex colonia democratica inglese e il resto del continente: il regime comunista infatti chiude tempestivamente la bocca a ogni minimo dissenso e limita costantemente le libertà fondamentali, in particolare attraverso la legge sulla sicurezza nazionale imposta cinque anni fa, secondo quanto dichiarato da funzionari occidentali e organizzazioni per la tutela dei diritti.
Lo scorso 3 novembre, l’Alta Corte di Hong Kong ha respinto l’istanza di una nota esponente filodemocratica volta all’annullamento del procedimento a suo carico. Chow Hang-tung, fondatrice di un’associazione ormai sciolta che organizzava le veglie annuali per commemorare le vittime del massacro di piazza Tiananmen del 1989, è stata incriminata nel 2021 con l’accusa di incitamento alla sovversione ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino.
La normativa, dal contenuto (volutamente) vago, criminalizza qualsiasi dichiarazione o atto che possano essere ritenuti secessionisti, sovversivi, terroristici oppure di collusione con forze straniere, prevedendo pene fino all’ergastolo. Secondo quanto riportato dal ministero degli Esteri degli Stati Uniti nell’ultima analisi annuale sul quadro degli investimenti a Hong Kong, almeno 320 persone sono state arrestate — solo fino a marzo scorso — con l’accusa di aver violato la cosiddetta legge sulla sicurezza nazionale.




