Torture ai detenuti, il governo cinese sul banco degli imputati

WASHINGTON— L’udienza tenuta il 14 aprile dalla Commissione Esecutiva sulla Cina del Congresso americano ha destato preoccupazione e riflessione: si è discusso delle sistematiche pratiche di tortura che vengono comunemente impiegate nelle strutture di detenzione della Cina comunista. Diversi testimoni hanno esposto le immagini dettagliate di quello che hanno personalmente visto e vissuto.

In Cina, la tortura viene principalmente utilizzata per estorcere confessioni da criminali comuni, anche con l’obiettivo di distruggere la volontà del soggetto e umiliarlo. Un esempio significativo sono i praticanti del Falun Gong (una disciplina spirituale perseguitata in Cina dal 1999), che vengono sottoposti a violenze di ogni genere con l’obiettivo di farli rinunciare al loro credo.

La seduta è stata convocata dal deputato Chris Smith, presidente della Commissione, che ha riportato le sconvolgenti torture subite dal noto avvocato cinese Gao Zhisheng; Smith ha spiegato che il motivo per cui il legale (che in passato ha presenziato a numerose udienze) ha subito le torure, è stato di aver «osato rappresentare dei cristiani e dei praticanti del Falun Gong perseguitati».

Gao Zhisheng (che è attualmente agli arresti domiciliari in Cina) ha rilasciato una testimonianza scritta, presentata all’udienza dalla moglie Geng He, che attualmente vive con la  famiglia negli Stati Uniti.
La documentazione racconta i fatti dal 2006 fino al rilascio provvisorio avvenuto nel 2014; in questi otto anni Gao ha subito varie forme di tortura e percosse fino a essere seviziato per diverse ore consecutive con un bastone elettrico su tutto il corpo (parti intime comprese).

«Un Paese con aspirazioni di leadership globale come la Cina, non dovrebbe rendersi colpevole di simili orrori, deplorati senza eccezioni dalla Comunità internazionale», ha commentato Smith.
Anche il senatore Marco Rubio, copresidente della Commissione Esecutiva sulla Cina, nella sua dichiarazione scritta d’apertura ha confermato che Gao ha «subito abusi inimmaginabili», menzionando poi la retata di portata nazionale dello scorso luglio, che ha portato all’arresto di altri avvocati e attivisti per i diritti umani cinesi, incarcerati nelle cosiddette ‘prigioni nere’ (centri di detenzione e tortura non ufficiali in cui vengono rinchiusi, senza processo, i dissidenti del regime cinese). Il senatore ha infine precisato che alcuni di questi avvocati «sono stati tenuti in isolamento per quasi nove mesi, trovandosi particolarmente esposti a maltrattamenti e perfino torture».

I ‘TRE SPAZZOLINI’

Durante l’audizione Yin Liping, una praticante del Falun Gong della provincia del Liaoning, ha testimoniato in prima persona le torture subite: nel settembre del 2000, è stata inviata nel famigerato campo di lavoro forzato di Masanjia per aver intrapreso uno sciopero della fame e a causa del suo rifiiuto della ‘Politica di trasformazione’ del regime cinese (un’espressione che indica il sistema di misure coercitive e violente impiegato per costringere i praticanti del Falun Gong a rinunciare al loro credo).

«Sono stata ammanettata a un letto e mi sono stati iniettati farmaci sconosciuti per oltre due mesi. Questo mi ha fatto perdere momentaneamente la vista. Sono stata anche sottoposta, contro la mia volontà, a esami con ultrasuoni, elettrocardiogramma ed esami del sangue in un vicino ospedale. Mi iniettavano due o tre flaconi ogni giorno, di conseguenza ho accusato disturbi endocrini, incontinenza e sangue nelle urine. Inoltre, ho rischiato di rimanere soffocata a causa di una frequente e violenta alimentazione forzata».

Il 19 aprile 2001 Yin, assieme ad altre otto donne praticanti del Falun Gong, è stata sottoposta a una notte di atroce violenza sessuale da parte diversi detenuti uomini e guardie. Il racconto è scioccante: «Quattro/cinque detenuti maschi mi hanno scagliata sul letto; alcuni mi tenevano le braccia, altri le gambe. Un uomo più giovane si è seduto su di me e mi ha picchiata; avevo le vertigini e sono svenuta. Tre uomini stavano accanto a me, quando sono rinvenuta. E mi sono resa conto che, mentre venivo aggredita e umiliata sessualmente da quei detenuti delinquenti, ero stata videoregistrata».

Yin ha poi testimoniato le aggressioni sessuali e i crimini descritti in Vaginal Coma, un libro scritto dall’ex fotoreporter del New York Times Du Bin pubblicato a luglio 2014. Tenendo il libro in mano, Yin ha raccontato che «tre spazzolini da denti venivano legati assieme, inseriti nelle parti intime femminili e ruotati. Ho visto con i miei occhi un gruppo di uomini picchiare in bagno un’anziana praticante del Falun Gong. Hanno inserito con la forza un manico di scopa rotta nelle sue parti intime».
La storia di Yin viene narrata in Above the Ghosts’ Heads: The Women of Masanjia Labor Camp [Sopra le teste dei fantasmi: Le donne del campo di lavoro di Masanjia, ndt], un documentario realizzato da Du Bin a maggio 2013. Due mesi dopo, Yi è fuggita dalla Cina verso la Thailandia, per poi arrivare a dicembre 2015 negli Stati Uniti, dove ha ottenuto lo status di rifugiato.

LA PANCA DELLA TIGRE

All’udienza, anche un monaco tibetano ha raccontato le torture subite durante la sua prima incarcerazione, avvenuta nel 2008. Jigme Gyatso (alias Golog Jigme) è originario della provincia del Sichuan e in seguito ha lavorato nella provincia del Gansu con il regista Dhondup Wangchen (imprigionato per sei anni per aver girato un film sulla vita in Tibet). Nel 2008 Jigme è stato arrestato e torturato per due mesi, esperienza che ha vissuto nuovamente, seppur in maniera meno brutale nel 2009 e nel 2012.

«Per un mese e 22 giorni sono stato torturato continuamente. Sono stato costretto a sedermi sulla ‘panca della tigre’ […] giorno e notte. […] Le mie braccia erano ammanettate davanti a me su un piccolo tavolo di metallo e le gambe erano piegate sotto il sedile e legate alla sedia con dei polsini di ferro. Le articolazioni soffrivano terribilmente e a un certo punto i miei piedi erano diventati così gonfi che tutte le unghie dei piedi erano cadute. Da quando sono stato girato all’indietro sulla sedia e sospeso al soffitto, per ore ogni volta, conservo ancora le cicatrici ai polsi e alle caviglie. Sono stato privato del sonno, mi davano pochissimo da mangiare e soffrivo di una sete insopportabile […]».

Lo scorso novembre Jigme Gyatso, durante un’udienza a Ginevra del Comitato di revisione delle Nazioni Unite contro la tortura in Cina, aveva sentito un funzionario cinese che difendeva la panca della tigre, sostenendo che fornisse protezione e sicurezza contro i detenuti. «Ho passato giorni e notti su questa sedia; le torture sono state orribili», ha chiarito Jigme, mentre al termine dell’udienza, il presidente Smith ha definito «assurda» la tesi sostenuta dal funzionario cinese.

Jigme Gyatso (alias Golog Jigme), monaco tibetano, sostenitore dell’insegnamento della lingua tibetana e cineasta, parla davanti alla Commissione Esecutiva sulla Cina durante l’udienza ‘L’uso pervasivo della tortura in Cina’ nel Congresso americano, il 14 aprile 2016. Jigme è stato torturato dal personale cinese di ‘pubblica sicurezza’ nel 2008, nel 2009 e nel 2012.

Jigme Gyatso ha poi riferito di aver subito pestaggi con bastoni di legno e congegni elettronici, e di essere stato appeso a un tubo al soffitto con le mani ammanettate dietro la schiena.
Jigme non è mai stato formalmente arrestato o indagato e non è mai stato posto sotto processo; ma è stato tenuto in isolamento, senza avere la possibilità di una difesa legale né di cure mediche. Al terzo arresto nel 2012 pensava che le autorità lo avrebbero ucciso, ma è riuscito a fuggire: dopo essersi nascosto per 20 mesi è scappato in India, per ottenere infine asilo in Svizzera.

Nel corso dell’udienza, inoltre, Human Rights Watch ha riportato la storia di un detenuto condannato a morte e in attesa dell’esecuzione, che ha trascorso quasi otto anni nel braccio della morte con le mani incatenate ai piedi giorno e notte. In seguito l’uomo è stato rilasciato per «insufficienza di prove», probabilmente perché, allo stesso tempo, il regime si era pubblicamente impegnato a bloccare le condanne ingiuste derivavate da confessioni forzate. Dopo il suo rilascio ha sofferto di disabilità fisiche, disturbo post-traumatico da stress e depressione.

RIFORME NON APPLICATE 

In Cina esiste un solido quadro giuridico (completo di tutela legale per i detenuti) che proibisce torture, abusi ed estorsione di confessioni, in particolare grazie alle misure adottate tra il 2009 e il 2013. Ma la legge cinese e le norme di diritto internazionale vengono ignorate, mentre la tortura rimane una prassi.

Nel 1988 la Cina ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ma le campagne ufficiali degli anni 90 per frenare questa pratica si sono rivelate inefficaci. «Anche i funzionari cinesi definivano la tortura durante la detenzione una cosa “comune”, “grave” e “su scala nazionale” […] da lungo tempo diffusa nel sistema giudiziario penale cinese», ha dichiarato Sophie Richardson, direttore della sezione Cina di Human Rights Watch.

La Richardson ha però precisato che nel 2012 il codice di procedura penale della Repubblica Popolare cinese è stato rivisto «per escludere confessioni sospette e dichiarazioni scritto ottenute con la tortura»: procuratori e giudici sono ora vincolati dalla ‘norma di esclusione’, che vieta loro di usare prove direttamente ottenute mediante tortura. Il regime ha poi dichiarato che l’utilizzo di confessioni estorte è diminuito dell’87 per cento nel 2012, mentre la tortura e i decessi in custodia sono drasticamente ridotti.

Sophie Richardson, direttore della sezione Cina di Human Rights Watch, parla davanti alla Commissione Esecutiva sulla Cina, durante l’udienza del Congresso intitolata ‘L’uso pervasivo della tortura in Cina’, il 16 aprile 2016 (foto: Lisa Fan/Epoch Times).

Tuttavia, la polizia esercita un enorme potere sulla magistratura, e il sistema penale non ha meccanismi in grado di controllare in modo indipendente il trattamento dei sospetti da parte della polizia: «Gli avvocati non possono essere presenti durante gli interrogatori e i sospetti non hanno il diritto di rimanere in silenzio, in violazione del loro diritto a non auto-incriminarsi. Procuratori e giudici raramente mettono in dubbio o contestano il comportamento della polizia», ha chiarito la Richardson.

Durante l’udienza Margaret Lewis, professoressa di diritto alla Seton Hall University, ha spiegato che in Cina nei processi penali i tribunali fanno pesantemente leva sulle confessioni come forma primaria di prova, senza che vengano quasi mai sentiti dei testimoni: «i giudici si concentrano quasi esclusivamente sulle dichiarazioni rese dall’imputato durante la detenzione», ha precisato la Lewis in una sua testimonianza scritta.

Lo scorso settembre, il ministero di Pubblica Sicurezza cinese ha annunciato il graduale aumento dell’utilizzo della videoregistrazione durante gli interrogatori, per arrivare a filmare tutte le cause penali.
Questa dovrebbe essere una buona notizia, dal momento che le riprese potrebbero costituire un disincentivo alle pratiche coercitive della polizia. Tuttavia, «gli interrogatori videoregistrati vengono sistematicamente manipolati, così come la tortura dei sospetti e la registrazione della confessione – spiega la Richardson – I detenuti vivono spesso nel terrore» di essere portati nei centri di detenzione dove la polizia può infliggere le sue torture più agevolmente.

A ottobre 2015, la Lewis è stata invitata a vedere una stanza interrogatori di una stazione di polizia di Pechino: il personale era desideroso di mostrare la tecnologia in dotazione per effettuare videoregistrazioni.
Ma la Lewis non ha potuto fare a meno di notare lo slogan ‘Confessa sinceramente e il tuo corpo si sentirà a proprio agio’, i cui caratteri cinesi erano esposti davanti alla panca della tigre. La Lewis ha fatto notare che, in una tale situazione, una persona sospetta che subisce un lungo interrogatorio comprende di non avere alcun diritto di rimanere in silenzio, tradendo il proprio diritto di non auto-incriminarsi.

Human Rights Watch ha analizzato circa 158 mila verdetti penali pubblicati online tra il primo gennaio 2014 e il 30 aprile 2014, scoprendo che in 432 casi era stata menzionata la tortura.
La Richardson ha spiegato che di questi 432 casi, è risultato che solo 23 casi (pari al 5 per cento) sono stati respinti dal tribunale, e nessuno ha portato all’assoluzione dell’imputato. Inoltre, pochissimi giudici hanno approfondito le indagini sulle accuse di tortura.

I risultati dei dati sono comparsi il 13 maggio 2015 sul rapporto di Human Rights Watch intitolato ‘Tiger Chairs and Cell Bosses: Police Torture of Criminal Suspects in China‘ [Panca della tigre e cellulari dei capi: la tortura della polizia nei confronti di sospetti criminali in Cina, ndt]. La Richardson ha aggiunto che il rapporto include anche le interviste a diversi ex detenuti, che hanno parlato a Human Rights Watch degli interrogatori della polizia durante la custodia cautelare: sevizie come «essere appesi per i polsi, venire picchiati con i manganelli o altri oggetti e privati a lungo del sonno».

Sophie Richardson conclude facendo notare che, in Cina, è il detenuto a essere gravato dall’onere della prova che dimostri che la tortura. Nei verdetti del tribunale che Human Rights Watch ha analizzato, «non un solo testimone della difesa o esperto testimone ha deposto sulla tortura». 

 

Per saperne di più:

 

Articolo in inglese: ‘China’s Systemic Use of Torture Put Under Congressional Scrutiny

 
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