L’Oms deve essere rifondata

di redazione eti/Beige Luciano-Adams
14 Luglio 2025 11:56 Aggiornato: 14 Luglio 2025 11:56

In concomitanza dell’approvazione del Trattato sulle Pandemie da parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità, nel maggio di quest’anno, gli Stati Uniti hanno rivolto dure critiche all’Oms, accusandola di corruzione, sudditanza a interessi politici ed economici, e abbandono della propria missione originaria.

Alla 78esima Assemblea mondiale della sanità a Ginevra — dove il trattato è stato approvato con 124 voti favorevoli e 11 astensioni — la delegazione statunitense non era presente. Ma il ministro della Sanità statunitense, Robert Kennedy, è intervenuto a distanza con un video dicendo: «Esorto i ministri della Sanità di tutto il mondo e l’Organizzazione mondiale della Sanità a considerare il nostro ritiro come un campanello d’allarme», spiegando: «Non è affatto vero che il presidente Trump ed io abbiamo perso interesse per la cooperazione internazionale». Kennedy, puntualizzando che gli Stati Uniti sono già in contatto con Paesi «affini per visione», ha quindi proposto un sistema mondiale alternativo, invitando i ministri della Sanità di altri Paesi a collaborare al di fuori dei limiti di un’Oms ormai «moribonda».

A gennaio 2025, l’amministrazione Trump ha formalizzato il ritiro dall’Oms; un’iniziativa analoga era già stata intrapresa nel 2020, ma poi revocata da Joe Biden. In risposta, l’Oms ha espresso la speranza di un ripensamento americano.

Alla luce dell’esperienza del Covid, è sempre più evidente una convergenza verso strategie concentrate sulla prevenzione delle pandemie: miliardi di dollari vengono destinati a vaccini, sorveglianza e tecnologia avanzata per controllare le malattie, comprese quelle che ancora nemmeno esistono. In un contesto di risorse limitate, questo approccio contrasta con una visione centrata sul rafforzamento dei sistemi sanitari locali e su determinanti chiave quali nutrizione, igiene e sviluppo economico.
Il programma politico “Make America Healthy Again” dell’amministrazione Trump propone invece una visione olistica della salute, in linea con questo secondo approccio.
In questo scenario, il ritiro statunitense dall’Oms e la riduzione degli aiuti internazionali — compresa la soppressione dell’Usaid — suscitano preoccupazioni a livello mondiale. Si inizia infatti a temere un vuoto di potere che altri attori, quali governi autoritari o grandi aziende farmaceutiche, potrebbero riempire. Secondo alcuni esperti, però, lo schiaffo di Trump potrebbe stimolare una revisione delle criticità emerse durante la pandemia, in particolare un sistema di finanziamento troppo condizionato dagli interessi.

In questo contesto, la centralità attribuita a vaccini, tecnologie emergenti e sistemi di sorveglianza appare dunque in netto contrasto con l’altra visione della salute mondiale, più attenta al rafforzamento delle infrastrutture sanitarie locali, alla formazione del personale, all’accesso a servizi essenziali. La contrapposizione tra un approccio centrato sulla “medicina d’emergenza” e uno volto alla “promozione della salute” evidenzia una tensione strutturale ormai di lunga data. Da un lato infatti, esperti come Tulio de Oliveira richiamano l’attenzione sul rischio concreto rappresentato da minacce emergenti come l’influenza aviaria, sottolineando il valore preventivo di investimenti anticipati. Dall’altro, studiosi come il dottor David Bell contestano la priorità attribuita a scenari epidemiologici rari o incerti, perché le principali minacce emergenti non sono rappresentate da virus sconosciuti, ma dalla persistenza di malattie croniche come tubercolosi, malaria e Hiv, che nel 2025, continuano a causare oltre 2 milioni di vittime ogni anno.
Nel 2023, la tubercolosi è stata infatti la prima causa di morte per malattie infettive, superando il Covid‑19. Bell ha ribadito che la nutrizione resta fondamentale per ridurre la mortalità da tubercolosi, diarrea o malaria, ma riceve finanziamenti insufficienti rispetto a vaccini e programmi pandemici promossi dall’Oms. Secondo Bell, medico con esperienza pluriennale anche all’Oms, i rischi di pandemie speculative vengono amplificati con prove deboli o travisate: tra i nove patogeni indicati dall’Oms per la ricerca emergenziale, solo l’Ebola ha causato un’epidemia con oltre diecimila morti; e il Covid 19 rappresenta un’eccezione, non una tendenza.

Negli ultimi vent’anni le epidemie mondiali gravi si sono verificate ogni quattro-cinque anni, ma al netto del Covid 19 e H1N1, il numero totale di morti é stato inferiore a 26 mila. Negli ultimi anni infatti, secondo il dottor Bell, organizzazioni internazionali tra cui l’Oms, la Banca Mondiale e il G20, un forum per la cooperazione economica tra le maggiori economie mondiali, hanno stanziato ogni anno decine di miliardi di dollari in finanziamenti per le pandemie, in gran parte destinati allo sviluppo di vaccini, alla sorveglianza e alle tecnologie digitali. Ma le loro valutazioni dei rischi si basano su dati errati o perlomeno deboli e comportano un sacrificio in termini di risorse che potrebbero essere destinate ad approcci tradizionali più consolidati.
Mentre il panel del G20 sostiene che 15 miliardi di dollari all’anno rappresentino il minimo assoluto che il mondo deve investire nella prevenzione delle pandemie, per il dottor Bell il totale richiesto si avvicina ai 34 miliardi di dollari, ovvero 171 miliardi di dollari in cinque anni. Né De Oliveira né l’Oms hanno risposto alle richieste di informazioni inviate via e-mail da The Epoch Times in merito all’analisi di Bell e alle domande correlate.

Il cambiamento delle priorità dell’Oms è strettamente connesso alla sua struttura finanziaria: i contributi volontari vincolati da donatori privati e governi, tra cui la Fondazione Gates, prevalgono oggi sulle quote obbligatorie. Negli ultimi decenni l’attenzione si è spostata da interventi orizzontali sul territorio alla risposta “prodotto centrica”, con la centralizzazione delle decisioni.
Elisabeth Paul, esperta di sistemi sanitari internazionali, afferma che l’Oms ha perso la sua funzione normativa a favore di una funzione esecutiva delle priorità dei donatori, denunciando l’influenza sproporzionata dell’industria farmaceutica nella preparazione pandemica, mentre il rafforzamento dei sistemi sanitari riceve scarsa attenzione.

Il ritiro degli Stati Uniti e i tagli agli aiuti incidono immediatamente su programmi essenziali (Hiv, tubercolosi, maternità, vaccinazioni), ma potrebbe innescare una razionalizzazione delle strutture organizzative. L’Oms ha aumentato le quote dei Paesi membri — ora pari al 40 % del bilancio — per compensare i 1,28 miliardi di dollari annuali persi nel biennio 2022-2023 dall’impegno americano.

Alcuni osservatori temono che la Cina possa sostituirsi agli Stati Uniti nella leadership sanitaria mondiale. Nonostante i contributi obbligatori cinesi siano inferiori rispetto a quelli americani, Pechino ha promesso 500 milioni di dollari in fondi volontari nei prossimi cinque anni. Bell sostiene che, data la dimensione della popolazione, sarebbe sensato un maggiore ruolo cinese, purché l’Oms rimanga un organismo consultivo e non imponga politiche nazionali.
La risposta dell’Oms, che ha incrementato la quota obbligatoria dei contributi statali per ridurre la dipendenza da fondi condizionati, segnala la consapevolezza della posta in gioco. Ma non basta un riequilibrio finanziario per ricostruire la fiducia perduta: serve una riflessione a 360 gradi sulla governance sanitaria, sul ruolo dei soggetti privati e sulla capacità dell’Agenzia di rappresentare in modo equo le esigenze di tutti i Paesi membri, in particolare quelli a basso reddito.

In conclusione, la struttura dell’Agenzia richiede un ripensamento profondo per adattarsi alle sfide attuali: le accuse di condotta sleale rivolte all’Oms, dalla scarsa trasparenza alla subordinazione a pressioni politiche ed economiche, mettono in discussione la sua autonomia. In un contesto mondiale segnato da crisi sanitarie, recuperare fiducia e legittimità richiede trasparenza, equità e responsabilità.

 


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