L’offensiva delle terre rare si ritorce contro la Cina

di Wang He per ET USA
20 Luglio 2025 7:36 Aggiornato: 22 Luglio 2025 7:37

I recenti negoziati tra Stati Uniti e Cina hanno portato a un’intesa preliminare per allentare le restrizioni sul commerci delle terre rare, ma non hanno allentato la tensione. Secondo un articolo del Financial Times del 30 giugno, i controlli cinesi non si limitano alle terre rare e ai magneti presenti nella lista ufficiale di Pechino: le spedizioni vengono bloccate nei porti con ispezioni aggiuntive e analisi chimiche, se contengono termini “sensibili” come “magnete”, anche quando non soggette a restrizioni. Il giorno successivo, il ministro del Tesoro Usa, Scott Bessent, ha chiesto a Pechino di accelerare il rilascio delle esportazioni di magneti a base di terre rare, che non sono ancora tornate ai livelli di inizio aprile. È chiaro che il regime comunista cinese intende sfruttare fino in fondo il controllo su queste risorse strategiche.

Da decenni la Cina consolida il suo primato nella filiera mondiale delle terre rare. Domina estrazione, produzione, export e know-how tecnico. Un paradosso, considerando che l’industria moderna delle terre rare è nata negli Stati Uniti, con la miniera di Mountain Pass in California, leader mondiale fino agli anni Ottanta. Ma nel 2002, tra le questioni ambientali e la concorrenza cinese, l’impianto ha chiuso. Intanto, Pechino estraeva dai suoi vasti giacimenti, soprattutto in Mongolia Interna, fin dalla metà del Novecento. Negli anni ’80 il Partito comunista cinese ha compreso il valore strategico di queste risorse. Nel 1992, infatti, Deng Xiaoping aveva dichiarato: «Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare», prevedendo che la Mongolia Interna avrebbe trainato la crescita economica nazionale. Tra il 1985 e il 1998, rimborsi fiscali sulle esportazioni hanno favorito un’espansione incontrollata, coinvolgendo governi locali, imprese private e persino organizzazioni criminali. Questo dominio ha causato tre problemi: devastazione ambientale, distorsioni di mercato e una reazione internazionale.

In un raro momento di trasparenza, un documento ufficiale cinese del 2012 ha ammesso i danni causati dall’estrazione delle terre rare: «Le tecniche obsolete utilizzate per estrarre, lavorare e separare le terre rare hanno devastato la vegetazione, causando erosione, inquinamento e acidificazione, con raccolti agricoli ridotti o azzerati», dice il documento. Anche le tecniche più moderne, come la lisciviazione in situ, «rilasciano grandi quantità di ammoniaca, azoto e metalli pesanti, contaminando gravemente acque superficiali, sotterranee e terreni agricoli». Alcune aree minerarie hanno subito frane, ostruzioni dei fiumi e disastri ambientali. Tredici anni dopo, poco è cambiato. Ripristinare l’ambiente costa molto più che danneggiarlo. Pochi si arricchiscono, mentre i danni pesano sull’intera nazione.

Nonostante le riforme di mercato annunciate nel 1978, Pechino ha sempre mantenuto un controllo rigido sui settori strategici, terre rare incluse. Dal 2006 ha rafforzato la presa, promuovendo la proprietà statale e introducendo quote produttive per consolidare il monopolio. Ogni anno, il ministero dell’Industria e della Tecnologia dell’Informazione e il ministero delle Risorse Naturali stabiliscono le quote per estrazione, fusione e separazione. Il 19 febbraio, il primo dei due ministeri ha pubblicato due bozze di regolamenti: le Misure provvisorie per la regolamentazione delle quote di estrazione e fusione/separazione e le Misure provvisorie per la tracciabilità dei prodotti di terre rare. Una volta in vigore, centralizzeranno il controllo del 92% della filiera nazionale. Solo i grandi gruppi statali e le loro affiliate potranno operare, con un elenco ufficiale gestito dal ministero. Tutti gli altri soggetti ne saranno esclusi.

L’uso delle terre rare come arma geopolitica, evidente nella disputa con il Giappone sulle isole Senkaku nel 2010, ha spinto Stati Uniti e alleati a cercare alternative. I primi tentativi, come lo stabilimento di magneti della Hitachi Metals (ora Proterial) negli Usa, sono falliti. Ma le crescenti tensioni hanno obbligato l’Occidente a muoversi. Gli Stati Uniti stanno rilanciando la produzione interna, sostenendo progetti come Mountain Pass con contratti del ministero della Difesa. Leggi come l’Inflation Reduction Act e il Bipartisan Infrastructure Law finanziano lo sviluppo di filiere nazionali per minerali critici. L’Australia ha creato una Riserva strategica per i minerali critici, per aumentare la produzione interna e ridurre la dipendenza mondiale. A giugno, l’Unione Europea ha annunciato 13 nuovi progetti strategici su materie prime critiche fuori dai propri confini, che si aggiungono ai 47 previsti dal Critical Raw Materials Act. In totale 60 progetti, in Paesi come Canada, Brasile e Ucraina, per garantire sicurezza alle filiere e competitività nei settori di veicoli elettrici, rinnovabili, difesa e aerospazio. E creare anche valore locale nei Paesi partner.

Nonostante il dominio mondiale, il settore cinese delle terre rare è in difficoltà. I prezzi restano bassi, i profitti scarsi e i costi ambientali crescenti. Se da un lato Pechino presenta questo controllo come un vantaggio strategico, dall’altro rischia di scavarsi la fossa da sola. Sacrificando la sostenibilità, soffocando la concorrenza e alienandosi i partner internazionali, la Cina ha dilapidato un potenziale patrimonio nazionale per guadagni geopolitici a breve termine. I danni resteranno come fardello per le generazioni future. Con l’uso delle terre rare come arma, il Partito comunista cinese non solo sfida l’Occidente, ma mette in serio rischio il futuro della Cina stessa.


Iscriviti alla nostra newsletter - The Epoch Times

 

Copyright Epoch Times