Donald Trump ha annunciato il 22 ottobre nuove sanzioni contro la Russia, colpendo due delle sue più grandi compagnie petrolifere, Rosneft e Lukoil. Il giorno seguente, l’Unione Europea ha adottato ulteriori misure restrittive rivolte alla flotta ombra moscovita, a istituti bancari, soggetti facenti capo a Paesi terzi e fornitori di servizi legati alle criptovalute.
Queste sanzioni rientrano in una strategia coordinata dell’amministrazione Trump e dei suoi alleati europei volta a esercitare pressione sul Cremlino e a ostacolare la sua capacità di finanziare la macchina bellica, basata in larga misura sulle esportazioni di petrolio e gas.
Secondo alcuni analisti, la Russia sta assorbendo lo shock finanziario della guerra e delle sanzioni meglio di quanto previsto, ma è comunque in grossa difficoltà. E alcune previsioni riservate trapelate dal ministero dello Sviluppo economico russo rivelano una previsione economica negativa fino al 2027. Per cui, il Cremlino starebbe facendo forte affidamento su casse statali e aumentando le tasse, mentre in parallelo sta spostando gli investimenti sulla produzione militare (anche) per mantenere a galla l’economia. Un’economia bellica precaria, che (almeno per ora) genera ancora grandi entrate grazie all’esportazione di petrolio e gas ma che è comunque insufficiente, e costringe lo Stato a indebitarsi per pagare il costo dell’invasione dell’Ucraina; una “operazione lampo” di una settimana – nelle intenzioni iniziali di Putin – che invece dura ormai da quasi quattro anni.
La salute finanziaria della Russia e la stabilità del rublo sono strettamente legate all’andamento del prezzo del petrolio. Il settore energetico contribuisce per circa il 30-40% al bilancio russo e per il 45-50% al totale delle esportazioni. L’India importa dalla Russia fiumi di petrolio: lo scorso anno le importazioni indiane hanno superato i 52 miliardi di dollari, pari a circa un terzo delle esportazioni di petrolio russe, favorite dal crollo del prezzo del greggio russo conseguente alle sanzioni e al mercato nero che si è venuto a creare in seguito a esse.
Ma la pressione esercitata da Washington su New Delhi sta rendendo il petrolio russo sempre meno conveniente per l’India. «Entro breve tempo, non compreranno più petrolio dalla Russia», ha detto Trump ai giornalisti nello Studio Ovale il 15 ottobre.
Caduta l’India, quindi, a importare greggio russo in grosse quantità, a fare muro restano solo il regime cinese, l’Ungheria e la Slovacchia. Ma anche qui iniziano a vedersi le prime crepe: la Cina ha sospeso alcune importazioni di greggio russo trasportato via mare (in particolare tramite le maggiori compagnie statali) spaventata delle ultime sanzioni statunitensi. E sembra improbabile che Ungheria e Slovacchia, per quanto “amiche” della Russia possano continuare a lungo a fare i pesci in barile, anche perché Bruxelles ha finalmente deciso di azzerare del tutto le importazioni di petrolio e gas dalla Russia entro il 31 dicembre 2027 (cioè fra un anno). A quel punto, dovranno decidere da che parte stare.
La Federazione Russa ha registrato un deficit di bilancio pari a 60 miliardi di dollari nei primi sette mesi del 2025. Il Fondo nazionale di ricchezza russo, la riserva in valuta estera e oro creata per tenere in piedi le pensioni statali, contava nel 2022 circa 113 miliardi e mezzo di dollari in attività liquide, pari al 7,3% del Pil. Da allora questa riserva si è ridotta al ritmo di 1 miliardo e 700 milioni di dollari al mese, e oggi ammonta – secondo l’agenzia russa Interfax – a 48 miliardi e 300 milioni di dollari, pari a solo l’1,8% del Pil.
All’attuale ritmo di spesa, le risorse liquide della Russia potrebbero esaurirsi entro la fine del 2026. Il che non lascia altra scelta a Putin che continuare a alzare le tasse.
Nonostante i miliardi provenienti dalle esportazioni petrolifere, insomma, la Russia continua spendere molto più di quanto incassa. E questo sta succedendo grazie alle sanzioni, benché applicate in modo a dir poco imperfetto. Finora, almeno.




