La paradossale solitudine delle relazioni digitali

di Francesca Rotondi
16 Giugno 2025 12:32 Aggiornato: 16 Giugno 2025 12:32

Nella società attuale delineata da una crescente comunicazione digitale, le famiglie si trovano a fronteggiare un fenomeno sempre più diffuso: la solitudine relazionale dei propri figli adolescenti. Una generazione di giovani che, se pur costantemente connessa a smartphone, social network e piattaforme di messaggistica, sperimenta in misura sempre maggiore un senso paradossale di isolamento affettivo e relazionale.

Mai come oggi i ragazzi possiedono molti “contatti”, e al contempo sono così soli, privi di rapporti autentici. Il vero paradosso della comunicazione digitale si riflette proprio nell’essere costantemente in contatto senza sentirsi davvero in relazione: le relazioni digitali tendono a svilupparsi velocemente e su un piano troppo spesso superficiale, con dinamiche che raramente portano ad uno scambio autentico ed empatico tra i giovani.

I ragazzi si trovano così a gestire un equilibrio psicologico precario, tra il bisogno di appartenenza al gruppo dei pari, tipico dell’adolescenza, e il senso di isolamento, esclusione e inadeguatezza, alimentati costantemente da contenuti virtuali idealizzati di successo, bellezza e felicità.

Nell’adolescenza, una fase delicata in cui si manifesta lo sviluppo dell’identità, in assenza di strumenti critici ed emotivi, alcuni giovani trovano nei social una forma di compensazione, alimentando però ulteriormente la dipendenza da conferme esterne. Le conseguenze segnalate da diversi studi scientifici riportano una profonda sensazione di solitudine relazionale, insicurezza emotiva, bassa autostima e, in alcuni casi, sintomi depressivi o ritiro sociale.

Una generazione apparentemente connessa, ma che in realtà è disancorata da valori condivisi e riferimenti affettivi stabili, diventa facile preda di messaggi devianti sui social che esaltano l’aggressività come forma di affermazione personale, l’uso di sostanze, sfide pericolose e una visione distorta del proprio corpo nelle ragazze con modelli sessualizzati. I social non si limitano più a riflettere ciò che accade nel mondo giovanile: lo modellano, lo orientano, lo distorcono. Così, quello che ieri era considerato scioccante oggi diventa tendenza.

Tra i contenuti più spesso usati per veicolare messaggi devianti ci sono quelli musicali: i ragazzi assumono come colonna sonora della loro vita testi che inneggiano alla violenza, all’odio di classe, al disprezzo per l’autorità, alla criminalità, alla sessualizzazione precoce. Spesso sono testi di trap, drill e gangsta rap. A ciò si aggiunge il crescente successo degli influencer come punti di riferimento: figure eccentriche spesso prive di competenze educative ma che riescono a orientare modelli e scelte etiche e comportamentali con un carisma persuasivo che supera quello genitoriale e scolastico.

In questo scenario intervenire su una regolamentazione dei social appare necessario, ma in realtà non è sufficiente. Per quanto potenti e invasivi, i social non possono essere considerati come la causa del disagio adolescenziale e della diffusione di modelli devianti: il problema reale risiede nel sistema che sfrutta questi strumenti digitali per obiettivi economici e spesso di controllo comportamentale.

Dietro a ogni influencer, piattaforma, trend virale, esiste un’architettura industriale che monetizza l’attenzione, lucrando sui meccanismi cognitivi e affettivi degli utenti, in particolar modo dei più giovani. I grandi colossi del web, compresi quelli che operano nei settori come giochi online e intrattenimento per adulti, hanno obblighi legali ma nella realtà sono spesso inefficaci, aggirati o scarsamente sanzionati. Si dovrebbe impedire l’accesso autonomo ai minori di 14 anni ma in pratica la verifica dell’età si basa su un’autocertificazione facilmente aggirabile. Il controllo è lasciato alla buona fede dell’utente e alla responsabilità delle famiglie. Le normative, sia in Italia che a livello europeo, cominciano solo ora a muovere i primi passi: le leggi sono ancora in discussione, in attesa di essere approvate dalle aule parlamentari.

La responsabilità della protezione dei minori nell’ambiente digitale non può essere relegata al buon senso delle famiglie, né ai regolamenti interni delle piattaforme. Si discute sui limiti di accesso per minori, sulle campagne educative a scuola, sulla regolamentazione degli algoritmi ma, senza una visione sistemica, sembra di svuotare l’oceano con un cucchiaio. Occorrono riforme urgenti, leggi chiare, vincolanti e soprattutto applicabili. Ridisegnare un sistema che metta al centro i giovani come persone da educare, non da sfruttare e fidelizzare. In questa direzione, Grecia, Francia e Spagna hanno recentemente lanciato un appello per un intervento immediato. In seguito al susseguirsi di vicende drammatiche — adolescenti vittime di cyberbullismo, isolamento sociale, autolesionismo e suicidi legati a sfide virali — i tre Paesi hanno sottoscritto un “non-paper”, un documento informale ma politicamente rilevante, con cui chiedono all’Unione europea misure drastiche e coordinate per proteggere i minori. Il testo è stato presentato nei giorni scorsi in vista del Consiglio Telecomunicazioni dell’Ue, previsto per il 6 giugno a Lussemburgo, durante il quale si affronterà il tema della tutela dei minori nel mondo online.

La stessa Commissione Europea sta puntando a rafforzare la tutela dei minori online, in vista dell’introduzione del portafoglio digitale europeo atteso entro il 2026, introducendo da luglio il progetto pilota “mini-wallet”, un sistema di verifica dell’età che accerta il superamento dei 18 anni, senza violare la privacy dell’utente e che evita la raccolta di dati personali non necessari. Un appello arriva anche dall’eurodeputato Henna Virkkunen, vicepresidente esecutivo della Commissione Europea per le tecnologie, che invita le società tecnologiche a non aspettare che i vari governi a livello mondiale prendano provvedimenti spesso frammentari, ma a assumersi una responsabilità attiva nella tutela dei minori online.

Per quanto riguarda il territorio italiano, i minori non sono ancora pienamente protetti dai colossi del web. Le norme ci sono, e in molti casi sono all’avanguardia, ma restano deboli nell’applicazione, frenate da limiti tecnologici, resistenze delle piattaforme e dalla mancanza di un coordinamento internazionale.

I governi faticano a imporre regole efficaci alle big tech. I motivi sono molteplici: da un lato ci sono gli interessi economici, fiscali e occupazionali legati alla presenza dei colossi digitali; dall’altro, il potere di lobbying delle piattaforme nella comunicazione politica scoraggiano interventi restrittivi. A tutto questo si sommano difficoltà tecniche: regolamentare un mercato in continua evoluzione richiede competenze specialistiche e non sempre le autorità pubbliche sono adeguatamente aggiornate per star dietro alle grandi aziende tecnologiche internazionali, che dispongono di team legali e tecnici molto preparati, un architettura difficile da scalfire con normative nazionali.

La protezione dei minori online rimane una sfida complessa. La verifica dell’età e l’educazione digitale rappresentano solo i primi passi nella giusta direzione, ma non bastano: occorre maggiore pressione sulle Big Tech per ottenere filtri realmente efficaci, piena trasparenza sugli algoritmi e misure di protezione concrete per i più giovani.

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