A quasi un decennio dallo sconcertante califfato dell’Isis in Siria e Iraq, l’attenzione internazionale si è spostata altrove. Le rivalità tra grandi potenze, la regolamentazione dell’intelligenza artificiale e i conflitti in Ucraina e Gaza dominano il dibattito mondiale. Tuttavia, nell’ombra, il terrorismo jihadista si sta trasformando, trovando l’Occidente sempre più impreparato. L’attentato del marzo 2024 al Crocus City Hall di Mosca, attribuito all’Isis-K, ha causato la morte di 145 spettatori, segnando uno degli attacchi terroristici più gravi degli ultimi anni. In Afghanistan, la presa dei talebani si indebolisce mentre l’Isis-K intensifica gli attentati contro le minoranze sciite e obiettivi stranieri. Nell’Africa subsahariana, le insurrezioni jihadiste conquistano terreno nelle regioni del Sahel e del Corno d’Africa, sfruttando il collasso degli Stati. In Europa, i servizi segreti lanciano nuovi allarmi su possibili attacchi di lupi solitari, ispirati dal conflitto a Gaza, da TikTok e da piattaforme digitali criptate. L’ideologia jihadista non è mai scomparsa: si è adattata e sta riacquistando terreno. Questo ritorno non dovrebbe sorprendere. Nel 2019 avevo sostenuto che il genio jihadista non era stato rinchiuso nella lampada, ma solo rimodellato. Nel 2025, quel genio è di nuovo in circolazione: più frammentato, più difficile da individuare e forse ancora più pericoloso.
Urge abbandonare le strategie di contrasto a breve termine e adottare un approccio generale e preventivo, adatto al panorama delle minacce attuali. Tale strategia deve poggiare su sei pilastri interdipendenti: educazione, legislazione, intelligence, applicazione delle leggi, deterrenza e difesa. L’ecosistema jihadista non ha più un epicentro a Raqqa o Mosul, ma opera come una costellazione decentralizzata di cellule, ideologi e individui radicalizzati, uniti non da una gerarchia, ma da una dottrina di insurrezione perpetua.
In Siria, l’Isis sta riemergendo silenziosamente nelle province orientali di Deir ez-Zor e Hasakah, dove la debolezza delle istituzioni, le tensioni tribali e i campi di detenzione abbandonati creano un terreno fertile. Nell’ultimo anno, i combattenti dell’Isis hanno condotto omicidi mirati, attacchi con ordigni improvvisati e imboscate contro le forze curde, mentre gli operatori online amplificano la propaganda del gruppo nello spazio digitale siriano, privo di controlli. L’illusione di una Siria “post-Isis” sta lasciando il posto a una minaccia più insidiosa e adattabile, simile alle origini del gruppo di un decennio fa. Il recente massacro di civili drusi nel sud della Siria è un brutale promemoria: l’ideologia jihadista continua a ispirare violenze di massa contro le minoranze vulnerabili. Che si tratti di frange dell’Isis, milizie radicalizzate o fazioni opportuniste che sfruttano il caos, il risultato è lo stesso: stragi mirate per terrorizzare, dividere e destabilizzare.
Il silenzio o la stanchezza dell’Occidente di fronte a tali atrocità non solo facilita ulteriori attacchi, ma mina la sua credibilità morale e la sua influenza nella regione. La lotta al terrorismo deve includere la protezione delle comunità a rischio, non solo la caccia ai responsabili dopo i fatti. L’Isis si è trasformato da attore territoriale a minaccia transnazionale a bassa visibilità. Continua a “governare” nel mondo digitale. La sua propaganda resta potente. I suoi operativi si trovano ora nelle giungle africane, nei sotterranei di Kabul e nelle periferie francesi. Reclutamento, coordinamento e indottrinamento si sono spostati su piattaforme criptate come Telegram, Discord e persino server di videogiochi. I jihadisti stanno imparando dai propri fallimenti. L’attacco del 7 ottobre 2023 di Hamas contro Israele ha ricordato al mondo che le certezze dell’intelligence possono crollare in un istante e che anche le difese di confine più avanzate possono essere violate da avversari determinati e capaci di sfruttare l’effetto sorpresa. In parte, Hamas ha adottato strategie affinate da Isis e Al-Qaeda: azioni coordinate, mediaticamente efficaci, ideologicamente potenti e temporalmente strategiche. Considerare il terrorismo jihadista una minaccia del passato è un’illusione pericolosa. È necessario sostituire le posture reattive con un quadro strategico a lungo termine.
Di seguito, i sei pilastri di una moderna strategia antiterrorismo.
1. EDUCAZIONE – SMANTELLARE L’IDEOLOGIA
Il terrorismo nasce dalle idee ben prima di arrivare agli esplosivi. È essenziale investire in campagne di contrasto ideologico per screditare la propaganda jihadista, sia nelle zone di conflitto sia negli ecosistemi digitali. Nel nord-est della Siria, i giovani nei campi di detenzione – molti figli di genitori affiliati all’Isis – crescono senza istruzione, governance o alternative. Questi vuoti non resteranno tali. Allo stesso modo, le comunità emarginate in Europa e Medio Oriente sono vulnerabili alle narrazioni radicali diffuse tramite TikTok, app di messaggistica criptata e server di videogiochi.
Le autorità locali e la società civile devono essere sostenute per creare programmi di prevenzione della radicalizzazione, rivolti in particolare a gruppi vulnerabili come le popolazioni sunnite escluse, i giovani rifugiati e le minoranze come i drusi, vittime dirette dell’ideologia jihadista. Anche le carceri sono un fronte cruciale: possono diventare incubatori di violenza o piattaforme di riabilitazione, a seconda delle scelte politiche di oggi.
2. LEGISLAZIONE – COLMARE LE LACUNE LEGALI
L’evoluzione del movimento jihadista ha superato di gran lunga i nostri quadri normativi. Molti Paesi mancano ancora di strumenti giuridici per perseguire combattenti stranieri, istigatori online o sostenitori logistici che non hanno mai impugnato un’arma. I reduci dalla Siria continuano a sfuggire alle maglie della giustizia: alcuni vivono liberamente nelle periferie europee nonostante la loro affiliazione con strutture di comando dell’Isis; altri, incluse donne e bambini, restano in un limbo legale.
Servono normative unificate che definiscano l’affiliazione, amplino le leggi sul supporto materiale e colmino il divario tra ideologia e azione. Atrocità come il massacro dei drusi dovrebbero attivare meccanismi automatici di responsabilità. Se i tribunali locali non possono agire, quelli regionali o internazionali devono intervenire. Silenzio e paralisi creano precedenti pericolosi. Anche le piattaforme digitali devono affrontare pressioni legali: una chiara struttura di responsabilità per la diffusione di contenuti estremisti – specie dopo ripetuti avvertimenti – dovrebbe essere sancita per legge, non negoziata dopo le tragedie.
3. INTELLIGENCE – ANTICIPARE IL PERICOLO
I servizi segreti devono evolversi con il nemico. I jihadisti di oggi non si riuniscono più in rifugi sicuri, ma in canali Discord, backchannel criptati e forum digitali chiusi, usando gerghi multilingue. È necessario investire in tecnologie di rilevazione delle anomalie basate sull’intelligenza artificiale, linguistica dei dialetti arabi e mappatura delle reti decentralizzate.
L’uccisione di civili drusi e i preparativi per l’attacco del 7 ottobre hanno coinvolto attività digitali sfuggite ai filtri convenzionali. Inoltre, bisogna rafforzare le capacità di intelligence in regioni come la Siria, dove la debole governance consente ai gruppi terroristici di riorganizzarsi. Collaborare con attori locali, sfruttare l’intelligence open-source e integrare competenze culturali deve diventare la norma. La cooperazione internazionale è indispensabile: nessuna agenzia, per quanto avanzata, può tracciare minacce transnazionali da sola.
4. APPLICAZIONE DELLE LEGGI – SUPERARE CONFINI, SISTEMI E STANCHEZZA
L’applicazione delle leggi non può fermarsi alla rilevazione. Deve integrare polizia, immigrazione, unità cibernetiche e servizi segreti sotto un comando operativo chiaro. Le zone di confine, come il nord-est della Siria, stanno diventando buchi neri per la giustizia. Le forze curde non possono custodire indefinitamente decine di migliaia di detenuti dell’Isis. La comunità internazionale deve assumersi maggiori responsabilità, o rischierà fughe che potrebbero innescare la prossima ondata di attacchi. In Europa, le capacità di contrasto sono di nuovo sotto pressione.
La “stanchezza antiterrorismo” che precedette il 2015 sta riemergendo, nonostante le nuove minacce post-7 ottobre. Le agenzie devono ricevere non solo finanziamenti e strumenti, ma anche personale e copertura politica. La cooperazione transfrontaliera – su arresti, processi e rimpatri – è l’unico modo per restare un passo avanti alle minacce decentralizzate.
5. DETERRENZA – PUNIRE I COMPLICI E ALZARE IL COSTO
I terroristi agiscono raramente da soli. Sono sostenuti da facilitatori finanziari, moderatori di social media, predicatori radicali e familiari che chiudono un occhio. È necessario iniziare a considerare il favoreggiamento come partecipazione attiva. Dopo l’attacco di Mosca, le autorità russe hanno arrestato decine di presunti complici. Le democrazie devono fare lo stesso, ma con precisione legale e supervisione. Il messaggio deve essere chiaro: favorire il terrorismo, anche tacitamente, ha conseguenze.
L’inazione occidentale di fronte ad atrocità come il massacro dei drusi invia un segnale opposto: permissività. Questo mina la deterrenza e invita a ripetere gli attacchi. Anche le piattaforme digitali devono essere frenate, non solo “coinvolte”. Violazioni ripetute delle politiche sui contenuti terroristici dovrebbero comportare multe, sospensione dei servizi e controlli legali. I governi devono smettere di chiedere gentilmente.
6. DIFESA – OBIETTIVI PROTETTI, VULNERABILI E CAMBIO MENTALITA’
Quando tutto il resto fallisce, la difesa è l’ultima barriera. Ma dobbiamo ripensare cosa e come difendere. Il 7 ottobre ha dimostrato che anche un confine protetto da sensori, sorveglianza e barriere fisiche può essere violato con una sorpresa strategica. La lezione: la difesa deve essere dinamica, stratificata e costantemente testata. Aeroporti, sinagoghe, villaggi drusi, moschee, scuole, concerti e municipi restano obiettivi vulnerabili e devono essere integrati nell’architettura di difesa.
Ancora più importante, dobbiamo passare dalla protezione di simboli alla tutela delle vite. Le comunità minoritarie nelle zone di conflitto – yazidi, curdi o drusi – devono essere incluse nei piani di protezione internazionale e nelle partnership di sicurezza.
L’ORIZZONTE STRATEGICO
Il terrorismo non sta scomparendo: si sta metastatizzando. Dall’Africa all’Asia all’Occidente, i gruppi jihadisti si stanno ricalibrando, non ritirando. Il loro prossimo attacco non sarà plasmato da vecchie tattiche, ma da nuovi strumenti e vulnerabilità non affrontate. L’Occidente non deve confondere i successi tattici con una chiusura strategica. Una strategia a sei dimensioni – educazione, legislazione, intelligence, applicazione delle leggi, deterrenza e difesa – non è solo un’opzione politica: è una necessità. Dobbiamo agire non per paura, ma per lungimiranza. Il genio jihadista non è svanito. Contenerlo o ignorarlo di nuovo dipende dalla volontà politica e dalla maturità strategica.
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