Non avrei mai immaginato che mettere al mondo mia figlia mi avrebbe offerto un fugace sguardo al paradiso. Finché non mi sono ritrovata a correre su un ponte per salvarle la vita. È stato allora che ho compreso quanto poco ancora sappiamo dell’esperienza umana e della straordinaria trama che potrebbe esistere al di là di ciò che la sola scienza riesce a spiegare.
Ho partorito la mia bambina, Trinity, a casa. Pesava oltre 4 chili. Era un momento colmo di gioia, fino a quando non mi sono accorta che aveva lo sguardo spento. Non piangeva, non sbatteva le palpebre, non si muoveva. Poi, all’improvviso, ho avvertito un dolore lancinante — più forte di qualsiasi contrazione. In pochi istanti ho perso una quantità di sangue pericolosa e ho perso i sensi. Ciò che è accaduto dopo va oltre ogni possibile previsione.
Mi sono ritrovata a correre su un ponte, diretta verso mia madre e il mio patrigno, entrambi scomparsi da poco. Mi attendevano in un luogo splendente, immerso nella natura. Non avevo mai visto paesaggi simili: colori intensi, alberi maestosi, una luce dorata. Non c’era paura. Solo pace. Mia madre teneva Trinity tra le braccia, entrambe serene, come se mi stessero aspettando. Sapevo che dovevo raggiungerle in fretta, se volevo salvare mia figlia.
Correndo con tutte le mie forze, sono arrivata davanti a loro e ho urlato: «Mi serve subito la bambina». Il mio patrigno ha sorriso: «Lo sappiamo», ha risposto. Mia madre mi ha consegnato Trinity con una dolcezza indescrivibile.
Mi sono voltata e ho cominciato a correre nella direzione opposta. Ma il ponte davanti a me stava svanendo, dissolvendosi centimetro dopo centimetro. Ho saltato quel che restava del cammino, stringendo mia figlia al petto, e mi sono risvegliata distesa sul pavimento, esattamente dove avevo perso i sensi.
Senza fiato, sono riuscita a sussurrare: «Dov’è la bambina?». Dalla stanza accanto ho udito la voce del medico, tesa e decisa: «Forza, dai. Respira. Puoi farcela».
CONTRO OGNI PREVISIONE
Poi, finalmente, Trinity ha pianto: un vagito forte e meraviglioso che ha spezzato il silenzio. Era il suo primo respiro, dopo lunghi minuti di apparente assenza di vita. Per le 18 ore successive, ho alternato momenti di coscienza a lunghi periodi d’incoscienza. Il mio livello di emoglobina era sceso a 5 grammi per decilitro, un valore ben al di sotto della soglia minima per una donna adulta che solitamente oscilla tra i 12 e i 15. Secondo i parametri medici, sopravvivere in tali condizioni è quasi impossibile.
Eppure, mi sono ripresa, senza bisogno di trasfusioni né di altri interventi sanitari. Una settimana dopo, durante una visita di controllo con la mia dottoressa — che non era presente al parto — ha letto il mio fascicolo clinico, ha scosso la testa incredula e ha detto: «È un miracolo. Saresti dovuta morire». Anche Trinity si è ripresa completamente. Oggi ha 4 anni ed è una bambina in salute, piena di vita.
QUANDO LA SCIENZA INCONTRA L’INSPIEGABILE
Le esperienze di pre-morte si verificano spesso in situazioni mediche critiche come arresti cardiaci, emorragie gravi, ictus, traumi cerebrali, annegamenti o mancanza di ossigeno. Circa la metà degli adulti e fino al 85% dei bambini che hanno rischiato di morire riferiscono di aver vissuto episodi di questo tipo. I racconti spesso parlano di una sensazione di distacco dal corpo, pace interiore, incontri con persone defunte, tunnel di luce, convinzione profonda che non si tratti di un sogno.
I più scettici potrebbero sostenere che la perdita massiccia di sangue abbia innescato in me uno stato fisiologico estremo, capace di provocare allucinazioni vivide, alimentate dalle mie credenze spirituali. Comprendo questo punto di vista.
Come scienziata, mi è sempre stato insegnato a considerare questi fenomeni come semplici effetti collaterali della biochimica cerebrale: visioni generate da sostanze neurochimiche in risposta alla carenza di ossigeno. Ma ciò che continua a tormentarmi non è il meccanismo, bensì il tempismo. Trinity ha compiuto il suo primo respiro proprio nell’istante in cui ho riaperto gli occhi. Quante sono le probabilità? Per me, è stato reale quanto questo momento che sto vivendo ora. E so di non essere la sola.
Il dottor Bruce Greyson, uno dei maggiori studiosi delle esperienze di pre-morte, ha rilevato che molte persone descrivono queste esperienze tanto reali quanto la vita quotidiana. Alcuni ricercatori ritengono che queste esperienze possano rappresentare uno scorcio della coscienza che si estende oltre il corpo fisico. Nel 2001, il cardiologo olandese, Pim van Lommel, ha pubblicato uno studio pionieristico su 344 pazienti sopravvissuti a un arresto cardiaco. Il 18 % ha riferito esperienze di pre-morte, nonostante in quel momento il loro cuore fosse fermo e il cervello non registrasse alcuna attività. Dati che mettono in discussione la convinzione, finora radicata, che la coscienza si spenga del tutto con la cessazione delle funzioni cerebrali. Un’idea che, da scienziata occidentale, un tempo avrei trovato inconcepibile.
Nel 2014, lo studio Aware (Awareness during Resuscitation) — la più vasta ricerca sull’argomento — ha esaminato oltre 2 mila casi di arresto cardiaco in vari Paesi. Tra questi, vi era un paziente che, nonostante fosse clinicamente morto, ha descritto con precisione strumenti e azioni compiute durante la rianimazione, particolari in seguito confermati dal personale sanitario.
Tali ricerche suggeriscono che la coscienza potrebbe non essere limitata alle sole funzioni cerebrali. Una possibilità che, fino al mio incontro con la morte, non avrei mai preso in considerazione.
UN NUOVO SGUARDO SULLA VITA
Che si tratti di stati alterati di coscienza o di reazioni biochimiche, le esperienze di pre-morte vengono spesso descritte come profondamente trasformative. Chi le vive racconta un cambiamento duraturo: la paura della morte si attenua, cresce il senso di uno scopo nella vita, si sviluppa una maggiore empatia, si vive più intensamente il presente e aumenta la gratitudine.
È proprio ciò che è accaduto a me. La mia esperienza di pre-morte non ha soltanto salvato la vita di Trinity, ma ha cambiato la mia. Non temo più la morte, perché ho visto il paradiso. Un luogo colmo di luce, amore e persone amate. Non mi sento mai sola, perché so che mia madre e il mio patrigno vegliano su di me.
Ora affronto la vita con il cuore colmo di gratitudine per ogni respiro, ogni alba, ogni istante di questa meravigliosa esistenza. Non ho più tempo da sprecare in drammi o nell’affannosa ricerca del successo. Non mi importa più di scalare gerarchie aziendali o di competere con chi mi sta intorno. La mia attenzione si è spostata sulle relazioni umane: vivere con presenza, far sentire le persone amate e accettate esattamente per ciò che sono. Ogni volta che osservo Trinity inseguire le farfalle in giardino, ricordo che i miracoli possono compiersi in un solo istante. Oppure in 20 minuti di silenzio.
Che la mia esperienza sia stata un’allucinazione biochimica o un passaggio momentaneo a un livello superiore dell’esistenza, mi ha insegnato che la scienza, da sola, non può — e non deve — pretendere di avere tutte le risposte. Anche fede, intuizione e ricerca spirituale hanno un posto nella nostra ricerca della verità. In fondo, anche se la scienza non ha ancora costruito un ponte verso «l’altro lato», esistono testimonianze potenti di chi quel ponte lo ha attraversato ed è tornato per raccontarlo.