Il presidente francese Emmanuel Macron è alla ricerca del suo quinto primo ministro in meno di due anni. Il governo Bayrou è durato nove mesi. Bayrou si è già recato al Palazzo dell’Eliseo, per presentare le dimissioni a Macron. Chiunque sarà scelto da Macron come successore si troverà di fronte alla “missione impossibile” di ottenere i voti in Parlamento per approvare la legge di bilancio 2026.
Tra i nomi che circolano per il prossimo primo ministro c’è quello del ministro della Difesa Sébastien Lecornu, ma Macron potrebbe anche optare per una figura di centro-sinistra o un tecnico. In Francia non esistono regole che vincolino il presidente nella scelta del candidato o nei tempi della nomina, anche se il suo ufficio ha dichiarato lunedì che Macron nominerà il nuovo primo ministro nei prossimi giorni. Secondo un sondaggio pubblicato martedì da Rtl, il presidente del partito conservatore Rassemblement National, Jordan Bardella, è il candidato più popolare alla carica di primo ministro, con il 43 per cento degli intervistati che lo vedrebbe bene alla guida del governo. Marine Le Pen, il segretario del partito, e il ministro dell’Interno conservatore Bruno Retailleau hanno ricevuto ciascuno il 36 per cento di risposte positive. Il Rassemblement National sta spingendo affinché Macron si dimetta o convochi elezioni anticipate. I sondaggi indicano che la stragrande maggioranza degli elettori accoglierebbe con favore entrambe le alternative, a dimostrazione della forte impopolarità di Emmanuel Macron. Ma Macron ha escluso le proprie dimissioni.
D’altra parte, la decisione di Macron di indire elezioni anticipate lo scorso anno ha già prodotto l’attuale Parlamento frammentato, che sta rendendo praticamente ingovernabile la Francia, in un corto circuito istituzionale che sta mettendo in evidenza le gravi lacune dell’architettura con cui è stata concepita la Quinta Repubblica francese. La decisione di Macron di sciogliere l’Assemblea Nazionale e indire elezioni anticipate nel giugno 2024, nelle intenzioni sarebbe dovuta servire a rafforzare la sua maggioranza, e invece ha ottenuto l’effetto opposto, portando a un Parlamento incapace di esprimere una maggioranza. Macron ha dovuto quindi nominare un “governo di minoranza” di Bayrou (il controsenso è palese) che non disponeva di un numero sufficiente di seggi in Parlamento per ricevere l’approvazione dei propri disegni di legge. E infatti, Bayrou è stato sfiduciato.
La Quinta Repubblica francese, istituita nel 1958 da Charles de Gaulle (una sorta di “padre della patria” per i francesi), è un sistema politico ibrido che fonde elementi del presidenzialismo e del parlamentarismo, e noto come semi-presidenzialismo. L’obiettivo (evidentemente non sempre centrato) di De Gaulle era creare un esecutivo forte per evitare l’instabilità politica tipica delle precedenti repubbliche. Il funzionamento è abbastanza articolato: in Francia, il presidente della repubblica è eletto direttamente dai cittadini per un mandato di cinque anni, e ha un potere notevole: nomina il capo del governo, ha poteri significativi in politica estera e difesa, e può sciogliere la Camera, ossia l’Assemblea Nazionale (il Senato, in Francia è eletto non dal popolo ma da “grandi elettori” che rappresentano gli enti locali). Ma in Francia – e qui risulta palese una delle cause dell’attuale corto circuito istituzionale – il presidente è anche il supremo garante dello Stato e l’arbitro delle istituzioni repubblicane; ha quindi un ruolo contemporaneamente politico e istituzionale. Il conflitto di interessi insito in modo strutturale nel sistema francese è fin troppo evidente.
Una seconda causa di corto circuito – anch’essa resa evidente dall’esperienza di Macron – è la cosiddetta “coabitazione”, ovvero quando il presidente e la maggioranza parlamentare appartengono a schieramenti politici opposti. La situazione attuale, con un presidente privo di una maggioranza e un Parlamento frammentato e non compattamente ostile a quest’ultimo, è ancora più complessa e genera di fatto una paralisi politica (e qui probabilmente, un ulteriore difetto del sistema francese risiede non nelle istituzioni in sé ma nella legge elettorale, che stabilisce la distribuzione dei seggi e quindi influisce in modo assoluto sulla formazione della maggioranza).
Mentre le istituzioni (o meglio la politica) della Francia sembrano finite nelle sabbie mobili, le imprese – comprensibilmente – esprimono preoccupazione per l’impatto della crisi politica, e il popolo francese – altrettanto comprensibilmente – si prepara a tornare in piazza, cosa che peraltro fa regolarmente ma che purtroppo non porta mai a nessuna reale soluzione dei problemi. Le manifestazioni del movimento “Bloccare tutto”, previste per mercoledì e organizzate attraverso i social, ricordano le rivolte dei “Gilet Gialli” (sempre contro Macron nel 2018). Il capo della polizia di Parigi ha dichiarato a Bfm Tv che 80 mila operatori di pubblica sicurezza saranno schierati in tutta la Francia. E infine i sindacati: hanno annunciato una giornata di scioperi e proteste per il 18 settembre.
Le proteste di piazza, quanto sono reali e attraggono milioni di persone, sono già di per sé un serio problema per una nazione che abbia un governo efficace e istituzioni solide. Ma quando si trasformano in rivolte contro un potere politico delegittimato e pervicacemente attaccato al potere, e contro istituzioni ormai incapaci di funzionare, spesso diventano terreno di scontro per fazioni avversarie all’interno della popolazione e possono trasformare uno Stato in una polveriera sociale, pronta a esplodere in ogni istante. Speriamo non sia questo il caso.