L’attuale dibattito sui dati occupazionali degli Stati Uniti ha riportato all’attenzione l’importante ruolo svolto dall’Ufficio di Statistica del Lavoro, l’ente “indipendente” del ministero del Lavoro incaricato di fornire informazioni chiave sull’andamento del mercato del lavoro. Le recenti contestazioni, in particolare quelle provenienti dal presidente Trump, sollevano questioni di trasparenza e affidabilità.
L’Ufficio di Statistica del Lavoro fornisce dati economici sotto la supervisione del ministero del Lavoro. Sebbene diretto dal ministro, la gestione operativa è affidata a un commissario nominato dal Senato. Con circa 2.300 dipendenti, l’ente raccoglie e pubblica dati su occupazione, disoccupazione, salari, produttività e inflazione. I dati che produce sono fondamentali per valutare la salute dell’economia statunitense e orientare le decisioni sia pubbliche che private.
Le critiche di Trump hanno riportato all’attenzione i metodi di raccolta dati dell’agenzia federale, già oggetto di dubbi nella sua precedente amministrazione. Il presidente ha definito «truccato» il rapporto sull’occupazione relativo a luglio per «scopi politici», annunciando il licenziamento del commissario Erika McEntarfer, nominata da Joe Biden. A luglio, l’economia statunitense ha registrato la creazione di 73 mila nuovi posti di lavoro, un risultato nettamente inferiore alle attese degli analisti, che stimavano 115 mila nuovi impieghi. Inoltre, l’Ufficio ha rivisto al ribasso i dati di maggio e giugno, con una correzione complessiva di 258 mila posti di lavoro, la più consistente su due mesi dal 1979, escluso il periodo pandemico.
I dati mensili sull’occupazione, pubblicati regolarmente ogni primo venerdì, si basano su due principali indagini: una rivolta alle imprese (Current Employment Statistics) e una alle famiglie (Current Population Survey). Tuttavia, come in ogni sistema statistico di ampia portata, esistono inevitabilmente margini di errore e la necessità di revisioni successive. Queste revisioni, se significative, pur sembrando una prassi consolidata e trasparente, influenzano investitori, politici e osservatori economici. Peter C. Earle, ricercatore senior dell’American Institute for Economic Research, ha spiegato che chi si basa su modelli che presuppongono dati stabili rischia di sottovalutare l’impatto delle revisioni, con previsioni troppo precise e valutazioni dei rischi poco accurate. Ciò può portare a reazioni eccessive o interpretazioni errate (mettendo in difficoltà un’amministrazione in carica). Non solo: l’impatto delle revisioni e della qualità dei dati si riflette anche nelle scelte di politica monetaria. La Federal Reserve ad esempio si basa su queste informazioni per valutare lo stato del mercato del lavoro e orientare la propria politica sui tassi d’interesse. Errori o revisioni significative possono quindi influenzare decisioni cruciali per l’economia nazionale, come evidenziato dalle dichiarazioni di alcuni economisti e membri della stessa Fed che hanno ipotizzato reazioni diverse se fossero stati disponibili dati differenti.
Recentemente, l’Ufficio di Statistica del Lavoro ha anche annunciato una riduzione nella raccolta dati sui prezzi al consumo, avvertendo che ciò potrebbe ancora aumentare la volatilità delle stime a livello geografico e merceologico. Fortunatamente esiste la disponibilità di dati alternativi provenienti dal settore privato, come l’Employment Trends Index e le analisi di Indeed Hiring Lab, che contribuisce a fornire una visione più equa e diversificata della situazione occupazionale, supportando analisi e decisioni informate. Anche Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, ha dichiarato il 24 giugno davanti alla Commissione per i servizi finanziari della Camera, che la banca sta infatti integrando dati provenienti dal settore privato, adottando un approccio relativamente nuovo.