La crisi iraniana e le velleità imperialiste del Pcc

di Terry Wu/Giovanni Donato
2 Luglio 2025 13:17 Aggiornato: 4 Luglio 2025 14:27

Da anni il regime cinese mira a “rubare il posto” agli Stati Uniti e affermarsi quale unica superpotenza mondiale. Una partita che il Partito comunista cinese finora giocava anche in Medio Oriente, una regione tradizionalmente dominata dall’influenza statunitense. Due anni fa, il regime cinese ha svolto un ruolo centrale nella mediazione per la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Iran e Arabia Saudita e, sempre nel 2023, i Brics – organizzazione a guida cinese – ha accolto quattro nuovi membri dell’area mediorientale: Egitto, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. I Brics, fondati nel 2009 da Brasile, Russia, India e Cina, si erano già allargati nel 2010 con l’ingresso del Sudafrica.

Ma, dopo l’elezione di Donal Trump, la Guerra dei 12 giorni tra Israele e Iran per il regime cinese è stato colpo durissimo: gli Stati Uniti hanno dimostrato una reattività militare e diplomatica che non si vedeva da decenni, riaffermando la propria centralità. L’attacco diretto contro le infrastrutture nucleari iraniane e il successivo annuncio di un cessate il fuoco da parte del presidente degli Stati Unti, hanno di fatto umiliato il regime cinese, relegandolo a una posizione defilata e (maldestramente) pseudo-pacifista: il Pcc ha saputo solo diffondere dichiarazioni di condanna e richiami al rispetto del diritto internazionale, a dir poco improbabili considerato il rispetto che la dittatura comunista cinese ha dei diritti umani e del diritto internazionale.

Secondo alcuni osservatori, questo ritorno dell’America – che in Iran ha impressionato il mondo con un’operazione militare di eccellente livello – porterà diversi Paesi incerti a gravitare maggiormente verso l’orbita statunitense: le nazioni mediorientali tenderanno ad abbandonare le loro posizioni filocinese per adottare atteggiamenti perlomeno più neutrali, nel confronto tra le due potenze.
Attualmente il regime comunista cinese si trova in una fase di incertezza strategica e di particolare debolezza, non solo sul piano internazionale (la Nuova via della Seta che non ingrana, lo yuan che non riesce a soppiantare il dollaro, l’America che sta rapidamente recuperando un ruolo guida che non aveva dagli anni 80) ma anche alla luce degli intrighi di palazzo e della guerra per la supremazia del Partito in corso a Pechino; per non parlare dei gravi problemi di consenso interno dovuti alla crisi economica e alla tirannide comunista. La convinzione secondo cui l’Oriente sarebbe in ascesa e l’Occidente in declino, insomma, risulta a oggi contraddetta dalla realtà dei fatti.

IL RUOLO DELL’IRAN NELLA STRATEGIA CINESE

Il sostegno di Pechino ha svolto un ruolo cruciale nel mantenimento dell’economia iraniana e del programma nucleare di Teheran, nonostante decenni di sanzioni da parte di Stati Uniti e Onu; e la posizione geografica dell’Iran – ponte tra Oriente e Occidente – gli conferisce un valore strategico per la Nuova Via della Seta. Nel 2016, il segretario generale del Partito comunista cinese, Xi Jinping, visitava Teheran avviando una partnership strategica. Cinque anni dopo, nel 2021, Cina e Iran firmavano un accordo venticinquennale che prevedeva investimenti cinesi per 400 miliardi di dollari in diversi settori, tra cui telecomunicazioni, banche, porti e infrastrutture. In cambio, Teheran si impegnava a fornire petrolio.
Attualmente, la Cina acquista circa il 90% del petrolio iraniano, con un volume giornaliero di circa 1 milione e mezzo di barili (dato Kpler 2024), le transazioni avvengono normalmente in yuan, nell’ambito della strategia cinese di riduzione dell’uso del dollaro nelle transazioni internazionali. Yuan che poi l’Iran usa, naturalmente, per comprare merci cinesi. Ovvio, quindi, come la bastonata al regime di Teheran arrivata dall’America (che, per gli ayatollah, è nientemeno che «Satana») rappresenti una doppia umiliazione per il Pcc.

L’ESPANSIONE DELLA NATO

In parallelo, anche il rafforzamento della Nato e l’espansione delle sue ambizioni strategiche al di là dell’area euro-atlantica pongono interrogativi rilevanti. L’aumento delle spese per la difesa e il rafforzamento del dialogo con i partner dell’Indo-Pacifico, tra cui Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, segnalano la volontà delle democrazie occidentali di costruire una “rete di sicurezza” estesa e coordinata. Un’evoluzione che da Pechino si osserva con crescente preoccupazione. Il Pcc segue infatti con attenzione gli sviluppi dell’Alleanza Atlantica: il 26 giugno, un portavoce del ministero degli Esteri cinese ha criticato sia l’aumento delle spese militari, sia l’interesse crescente della Nato per la regione Asia-Pacifico, in un post pubblicato su X.
La paura del regime cinese è, con ogni probabilità, che si arrivi a un’estensione dall’Articolo 5 Nato (che prevede la risposta collettiva in caso di attacco a uno dei membri) ai Paesi dell’Indo-Pacifico alleati degli Stati Uniti, considerato che la dittatura cinese da tempo persegue l’obiettivo di conquistare Taiwan.

In conclusione, sembra si stia andando nella direzione di un Occidente man mano sempre più coeso attorno a un solo minimo comune denominatore, tanto semplice quanto categorico: non si può lasciare che il regime comunista cinese domini il mondo intero.

 

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