È opinione largamente condivisa che, se i canadesi non inizieranno a concentrarsi seriamente sulla produttività e sulla prosperità, si troveranno presto in difficoltà non solo sul piano economico, ma anche su quello strategico. Tuttavia, titoli come «Prepararsi a un decennio di ristrettezze e di standard di vita più bassi» mettono in evidenza un problema ben noto: è difficile combattere un nemico che ha già messo radici nella propria testa. Siamo talmente convinti che uno Stato sempre più invadente ci renda sani, ricchi e intelligenti, che quando ci fa ammalare, impoverire e ci lascia smarriti, finiamo per pensare: sì, non possiamo permetterci di spendere, ma nemmeno di tagliare. E così, le consuete convenienze politiche ci spingono a continuare a spendere, in modo sconsiderato.
Questo paradosso si riscontra nella gestione delle finanze pubbliche da parte dei governi di quasi ogni orientamento e in quasi ogni parte del mondo. Ma è ancora più evidente nel divario tra parole e azioni: mentre a parole si esalta la prudenza fiscale, nei fatti ci si fa beffe di essa. Nei Paesi poveri, i politici sostengono che non si possano tagliare i programmi, né pareggiare i conti, né governare con rigore, proprio perché si è poveri. La logica che ne discende è: “dobbiamo spendere denaro che non abbiamo, proprio perché non lo abbiamo”. Nei Paesi ricchi, la giustificazione è la stessa, ma rovesciata: non possiamo tagliare i programmi perché siamo ricchi. Ossia: “dobbiamo spendere denaro che non abbiamo, proprio perché noi possiamo permettercelo”.
In un certo senso, la responsabilità di questa mentalità è da attribuire a John Maynard Keynes, in particolare alla sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta pubblicata nel 1936. E, in quanto fermo sostenitore del potere delle idee, ritengo che quando una teoria profondamente errata ottiene una vasta influenza non sia per un complotto o per una generale ottusità, ma perché c’erano motivi all’apparenza plausibili per crederci. Motivi che poi si sono rivelati sbagliati.
Nel caso di Keynes, dopo la Grande Depressione iniziata nel 1929, si era diffusa la convinzione che i rimedi economici tradizionali avessero fallito: invece di riportare la prosperità, il laissez-faire aveva trasformato una fase di recessione in una vera e propria depressione. Sarebbero stati poi gli interventi pubblici, con la spesa sociale degli anni Trenta, quella bellica degli anni Quaranta e, infine, quella combinata tra welfare e Difesa negli anni Cinquanta, a tirarci fuori dal baratro. Dire che questa versione dei fatti fosse plausibile non significa condividerla. In realtà, all’indomani del crollo, i governi — quello statunitense in primis — abbandonarono il libero mercato in preda al panico. Il fatto che, proprio sotto la guida dei repubblicani — storicamente fautori del minimo intervento pubblico — gli Stati Uniti abbiano introdotto i maggiori aumenti fiscali e dei dazi della propria storia, indica che si trattò di un cambiamento profondo e tutt’altro che accidentale.
Ciò che accadde fu che persino i politici di destra finirono per ragionare secondo schemi della sinistra. Il vero lascito di Keynes fu infatti quello di offrire una legittimazione intellettuale a istinti profondamente radicati, anche se spesso concettualmente deboli. Tanto più che la Teoria generale è scritta in modo così oscuro — per carenze stilistiche ma anche concettuali — che i fautori del deficit e dei grandi programmi sociali potevano facilmente affermare che «il grande e terribile Mago» aveva dimostrato che tutto funzionava. Intanto, chi cercava di confutare nozioni come la “preferenza per la liquidità” faceva fatica a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica.
Ciononostante, già tra gli anni Sessanta e Settanta, la stagflazione aveva smentito nei fatti l’efficacia di quella teoria. Ma anche quando venivano eletti leader come Brian Mulroney, Margaret Thatcher o persino Ronald Reagan, il loro linguaggio ricordava quello di Calvin Coolidge o addirittura di Grover Cleveland, mentre le politiche che adottavano somigliavano più a quelle di Franklin Delano Roosevelt: non riducevano la spesa, non eliminavano i programmi, si limitavano a piccoli ritocchi marginali — incluse le aliquote fiscali — sperando di poter raggiungere l’austerità spendendo. In parte, questo rispondeva a calcoli elettorali. Ma, più a fondo, nei recessi della loro mente — come in quella dei loro sostenitori e collaboratori — erano i socialisti a presidiare le posizioni strategiche.
Un esempio di segno opposto lo offre oggi l’Argentina, sotto la guida del presidente libertario Javier Milei. Un classico titolo apparso sul Guardian nel novembre 2023 recitava: «Secondo gli economisti, l’elezione del candidato di estrema destra Milei segnerà la “devastazione” dell’Argentina». Già. Lo sostengono gli esperti. Cioè i progressisti.
A destra, molti replicavano in modo esitante, riconoscendo che, ovviamente, ci sarebbe voluto un decennio di sofferenze, dal momento che si ritirano i benefici dello Stato assistenziale. E invece, contrariamente a queste tetre previsioni, il cambiamento è stato immediato e radicale: inflazione in calo, avanzo di bilancio. Mentre, piuttosto che niente, i grandi giornali mainstream titolano con frasi del tipo «Nell’Argentina del “miracolo” economico di Milei, non tutti sono vincitori».
Non c’è da stupirsi se oggi i partiti di sinistra si propongono di introdurre il libero scambio interno mantenendo però la gestione centralizzata dell’offerta, i sussidi a pioggia e dazi di ritorsione. O se parlano di pareggio di bilancio mentre aumentano in modo vertiginoso la spesa pubblica, convinti che questo rilancerà l’economia e che le entrate fiscali si moltiplicheranno da sole. Ma quando anche i partiti di destra si indignano per poi votare a favore, o propongono alternative indistinguibili, il senso è che non si può sconfiggere una posizione in cui si crede.
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