Dopo cinque anni di insegnamento in una facoltà di economia e management, al termine di un percorso accademico che ha attraversato la letteratura inglese, il diritto e le scienze umanistiche, lascio il mio ruolo con un’osservazione inattesa: molti studenti hanno bisogno di essere convinti che il profitto abbia una funzione legittima.
Il calcolo è semplice – ricavi meno spese – ma la dimensione morale sembra disorientare questi giovani universitari. Arrivano in aula con un’istintiva diffidenza verso il motore economico che genera prosperità e opportunità. Ancora più significativo è il contrasto tra studenti di origini diverse. Quelli provenienti da contesti più umili, in particolare giovani afroamericani di aree rurali del Sud dell’Alabama, affrontano l’imprenditorialità con una chiarezza sorprendente. Avendo conosciuto di persona le difficoltà economiche, considerano il profitto una necessità pratica, non un compromesso morale. Osservano con genuino stupore i loro colleghi più privilegiati, che mostrano ambivalenza verso il successo commerciale pur godendo dei suoi frutti.
Questi studenti, spesso i primi della loro famiglia a frequentare l’università, comprendono intuitivamente ciò che altri devono imparare: il profitto non ostacola, ma rende possibile il bene sociale. Finanzia l’innovazione, crea posti di lavoro, offre beni e servizi di valore e migliora gli standard di vita. Trasforma le buone intenzioni in progressi concreti.
Questo atteggiamento mentale anti-commerciale è probabilmente più diffuso al di fuori delle facoltà di economia. Durante i miei studi di dottorato in letteratura inglese, ho notato contraddizioni simili tra i colleghi. Scrivevano appassionate critiche al capitalismo, ma al contempo si lamentavano dei loro modesti stipendi. Denunciavano il profitto, salvo poi deplorare che la società non remunerasse adeguatamente le loro analisi letterarie, senza mai cogliere l’ironia: in fondo, erano frustrati perché il mercato non valorizzava il loro lavoro. Gli stessi colleghi guidavano auto straniere, sorseggiavano caffè di marca e utilizzavano tecnologie sviluppate dalle grandi aziende che criticavano aspramente.
In altre parole, desideravano i benefici materiali del capitalismo, ma disprezzavano i suoi meccanismi, confondendo le loro insoddisfazioni professionali con una presunta superiorità morale. Non riconoscevano che il mercato, con il suo giudizio imparziale, rifletteva la domanda effettiva per teorie critiche radicali, studi di genere specialistici o analisi di poesia medievale. Mi torna in mente un episodio curioso dei miei anni di dottorato, quando partecipai a una conferenza su diritto e scienze umanistiche presso l’Università della Columbia Britannica. Un dottorando particolarmente zelante presentò quella che considerava un’idea rivoluzionaria: organizzazioni che rinunciavano intenzionalmente al profitto. Davanti a una platea di illustri accademici, spiegava con entusiasmo quasi palpabile questo “paradigma innovativo”, come se avesse appena scoperto il fuoco.
Quando gli fu chiesto come queste realtà potessero finanziare le operazioni, retribuire i dipendenti o sopravvivere alle crisi economiche senza riserve, liquidò le domande come “pensiero capitalista”. Il pubblico, con la tipica compostezza canadese, ascoltò educatamente mentre descriveva la sua visione, che in sostanza “reinventava” l’associazione senza scopo di lucro, ignorando che tali enti esistono da secoli, con una propria classificazione giuridica e regime fiscale. A colpirmi non fu solo la sua confusione concettuale, ma la convinzione di aver superato la saggezza convenzionale, quando in realtà non l’aveva nemmeno capita.
Questo episodio esemplificava come gli ambienti accademici possano talvolta alimentare costruzioni teoriche slegate dall’esperienza pratica, lo stesso distacco che ho poi riscontrato in alcuni studenti di economia che dovevano essere persuasi del ruolo del profitto come forza per il progresso umano.
Nonostante le sue imperfezioni, il sistema economico statunitense ha dimostrato una straordinaria capacità di generare prosperità diffusa. Chi ha conosciuto autentiche difficoltà economiche lo comprende senza bisogno di elaborate spiegazioni. La loro saggezza pratica offre una prospettiva preziosa ai compagni di corso provenienti da contesti più agiati.
Mentre lascio l’insegnamento per iniziare un nuovo lavoro fuori dall’università, porto con me questo paradosso: gli studenti che coglievano più intuitivamente il valore del profitto erano spesso quelli con minore esposizione al privilegio e maggiore contatto con la realtà.
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