Le recenti dichiarazioni di Donald Trump nei confronti della Cina e dei suoi alleati segnano un evidente cambio di tono. Dopo mesi in cui aveva evitato critiche dirette al Segretario generale del Partito comunista cinese, Xi Jinping, il presidente statunitense sta adottando un linguaggio più duro. Il 5 settembre, Trump ha stigmatizzato la condotta di India e Russia scrivendo su Truth: «Sembra che abbiamo perso India e Russia a favore della Cina più oscura e profonda. Che possano avere un futuro lungo e prospero insieme! Presidente Donald J. Trump». Parole che hanno il tono del distacco definitivo. Anche se Trump – ormai si è capito – ha una tecnica di negoziazione che nulla ha a che vedere con i paludati canoni di comunicazione della politica, e alterna condanne estreme a improvvisi riavvicinamenti. Ma è solo una tecnica, appunto: quando decide che è il momento di agire, Donald Trump non si ferma davanti a nulla (nemmeno davanti a un proiettile che, per un soffio, non gli ha fatto saltare in aria il cranio). Lo ha dimostrato sul fronte interno con la Guardia Nazionale e all’estero con l’Iran, per citare solo due esempi.
Donald Trump ha più volte criticato Cina e India per l’acquisto di petrolio russo in violazione delle sanzioni, imponendo di recente dazi del 50 per cento sulle importazioni indiane e senza mostrare alcuna intenzione di fare marcia indietro nonostante il dialogo in corso con Nuova Delhi.
L’India, da decenni sull’orlo della guerra con la Repubblica Popolare Cinese, a causa di dispute territoriali e tensioni economiche, fa parte del Quad, un’alleanza militare con Stati Uniti, Giappone e Australia, volta a contenere l’espansione cinese nell’Indo-Pacifico. Ciononostante, in questa fase New Delhi sta “tradendo” l’alleanza occidentale di cui fa parte per avvicinarsi ai regimi russo e cinese. Bisogna aggiungere che New Delhi fa anche parte dell’alleanza Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), a dimostrazione di quando ondivaga sia la sua politica estera.
Ora, Trump sta facendo pagare all’India il prezzo di questa ambiguità. L’India non sta, infatti, ricevendo lo stesso atteggiamento tollerante riservato a Cina e Russia, a dimostrazione che, quando la misura è colma, la reazione americana diventa implacabile. Con l’India, Trump sta probabilmente mandando un messaggio di questo genere a Putin e a Xi: “per ora tocca solo all’India, ma se non cambiate rotta i prossimi siete voi“.
Ma anche Trump sa essere ondivago: in un’intervista radiofonica del 2 settembre, il presidente degli Stati Uniti ha minimizzato le preoccupazioni dell’asse Cina-Russia contrapposto agli Stati Uniti: «Non sono affatto preoccupato, noi abbiamo l’esercito più potente al mondo, di gran lunga, e loro non userebbero mai le loro forze armate contro di noi, credetemi. Sarebbe la cosa peggiore che potrebbero fare» ha detto Trump, lanciando un avvertimento tutt’altro che velato. Lo stesso giorno, parlando con i giornalisti nello Studio Ovale, Trump ha detto: «La Cina ha molto più bisogno di noi di quanto noi abbiamo bisogno di loro» riferendosi a un accordo che metta fine alla guerra commerciale.
Più tardi, sempre il 2 settembre, Trump ha colpito di nuovo, accusando Xi, Putin e Kim Jong Un (la triade riunita alla parata militare di piazza Tienanmen) di «tramare» contro gli Stati Uniti. Incalzato dai giornalisti per un chiarimento, Trump ha poi smorzato i toni, sminuendo l’importanza dell’incontro fra i tre ma facendo anche capire che avrebbe rivalutato i rapporti fra gli Stati Uniti e i tre regimi nelle settimane successive. È la tecnica che Donald Trump applica sistematicamente (almeno in questo suo secondo mandato): per fare un passo avanti, ne fa tre in avanti e due indietro. E facendo molto rumore. Ma intanto, inesorabile, avanza.
Donald Trump ha sempre enfatizzato i suoi buoni rapporti “personali” sia con Xi Jinping che con Vladimir Putin, quasi a sottintendere una sorta di amicizia (che, con lui presidente, non è mai esistita) tra gli Stati Uniti d’America e i regimi russo e cinese. Donald Trump fa sempre così: mentre con i suoi nemici personali è un “rullo compressore”, con i nemici dell’America prima mostra brutalmente i muscoli, poi smorza i toni e sfodera una pacatezza e una cordialità di cui nessuno lo credeva capace. Dimostrando così una finezza mentale e una consapevolezza della situazione che contraddicono in pieno il (supponente) luogo comune, europeo e cinese, dell’americano capace di comportarsi solo come rozzo e ottuso cow boy. Insomma: che lo si ami o lo si odi, non si può dire che Donald Trump sia uno stupido. Anzi. Ed è uno che (normalmente) mantiene le promesse. Un “difetto” imperdonabile in politica.
Il 25 agosto, durante un incontro con il presidente sudcoreano Lee Jae Myung, Donald Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti dispongono di «carte molto migliori» rispetto alla Cina, in riferimento ai negoziati commerciali e in particolare alla decisione di Pechino di frenare le esportazioni di terre rare in America. Ma «io non voglio giocare quelle carte» ha poi detto Trump, «se lo facessi, distruggerei la Cina». Un avvertimento che dovrebbe fare molta paura al Partito comunista cinese.