La canoa in giardino, capovolta sulla terraferma accanto al lago, era ormai fuori servizio. L’ho usata come gradino per salire sull’altra imbarcazione, ma il mio piede ha sfondato la base, lasciandomi sgomento: la canoa apparteneva a un amico. Mi sono subito reso conto che, con quel buco, non avrebbe più potuto navigare. Questo, almeno, è quello che so di barche.
Mentre mi scusavo mortificato, pronto a tirar fuori il portafogli per risarcire il danno, il mio amico mi ha rassicurato con noncuranza: «Non è niente di grave», ha detto. La canoa, a quanto pare, era già piena di buchi e inservibile. Eppure, il mio imbarazzo non si è placato. Quel gesto maldestro aveva toccato una corda sensibile, un’insicurezza che mi porto dentro: la paura di non essere all’altezza del mondo reale. È stato un errore stupido, uno di quelli che mi ricordano quanto sia difficile riadattarmi alla vita concreta dopo gli anni di isolamento per la pandemia di Covid-19, coincisi con l’adozione di massa di tecnologie digitali, rese sempre più irresistibili e apparentemente indispensabili dall’intelligenza artificiale e dalla digitalizzazione di ogni aspetto della vita, dai codici Qr a ogni altra cosa.
Oggi, molti di noi cercano ogni occasione per riconnettersi al mondo fisico. Una volta saliti sull’altra canoa, remando sul lago insieme al mio amico, ho sentito una sorta di decompressione psicologica. Il suono dell’acqua che lambiva i fianchi dell’imbarcazione, la vista degli alberi lungo la riva: tutto era semplicemente meraviglioso. La mente vagava libera, in modi che solo la natura sa ispirare.
Non c’è confronto con il tempo passato davanti a uno schermo. Remare in un metaverso? Un pallido surrogato. In fondo, il mondo digitale è sempre stato una sorta di inganno, utile come ogni strumento, ma mai un sostituto della realtà. Questo, ormai, è evidente a molti.
Circa un anno fa, ho fatto un esperimento mentale. E se, come società, ci trasferissimo interamente nel cloud? Per alcune categorie di lavoratori, l’idea potrebbe sembrare plausibile, soprattutto dopo il boom del telelavoro durante la pandemia. Ma pensiamo a cosa perderemmo. Il cibo, per esempio. Nella mia città ci sono panetterie che amo visitare. Osservare i fornai al lavoro, impastare pane, torte e dolci, mi ricorda che certe competenze fisiche sono insostituibili. È una bellezza autentica.
Lo stesso vale per i macellai, i birrai, i giardinieri. Loro vivono e respirano il mondo fisico. Non ho mai apprezzato tanto professioni come queste, e lo stesso vale per il violoncellista, l’idraulico, l’artigiano che posa carte da parati, gli attori sul palco, chi rifornisce i negozi. C’è un fascino intramontabile nel mondo fisico, che ci tiene ancorati alla realtà e ci protegge dall’illusione che la vita possa essere sostituita da uno schermo.
Personalmente, mi rifiuto di usare lo smartphone per consultare il menu di un ristorante. Mai! Se non c’è un menu cartaceo, chiedo a qualcuno di elencarmi le opzioni. In caso contrario, ordino un hamburger e basta. Ho chiuso con i menu “senza contatto” e tutto ciò che rappresentano. Dopo anni di computer nelle aule, oggi insegnanti e presidi si affannano a correggere il tiro: vietano i dispositivi in classe, tornano ai libri cartacei, insistono sull’importanza della scrittura a mano.
A concerti e teatri, sempre più sale adottano custodie con chiusura temporizzata per impedire l’uso dei telefoni durante gli spettacoli. L’era degli annunci che imploravano di spegnerli è finita. Stiamo arrivando a una tolleranza zero per queste distrazioni.
Lo stesso accade alle cene private. Non ci sono regole scritte, ma il cambiamento è palpabile. Cerco sempre di tenere il telefono lontano, ma a volte, in un momento di pausa, l’ho tirato fuori per un’occhiata veloce. Gli sguardi di disapprovazione sono inequivocabili, e giusti. O sei presente, o non lo sei. Se preferisci uno schermo a una cena tra amici, resta a casa.
La sfida più grande per i genitori oggi non è insegnare l’alfabetizzazione digitale, ma limitare il tempo davanti agli schermi. Molti vietano ogni dispositivo fino ai 15 anni. Non è sempre realistico: ogni genitore sa che l’iPad è il babysitter più efficace mai inventato. Difficile resistere. Ma permettere ai figli un accesso illimitato a internet? Una follia. Nessun genitore responsabile lo farebbe. Oggi si usano controlli rigidi: filtri sui siti accessibili, spegnimenti automatici e altre misure. Ci vuole una certa competenza tecnologica per configurarli, ma è indispensabile.
Sempre più persone che incontro rinunciano alla tecnologia digitale dove possibile. C’è chi ha un home theater che proietta solo Dvd. I vinili stanno tornando di moda. Le case senza televisori non sono più una rarità. Rifiutare i gadget più recenti sembra quasi un segno di distinzione, una prova di autenticità, di chi ha capito il gioco e lo rifiuta. Non ricordo l’ultima volta che ho visto qualcuno urlare a un assistente vocale di riprodurre una canzone.
Questo movimento non è solo un rifiuto del metaverso, ma un abbraccio alla realtà: un amore ritrovato per l’escursionismo, i libri cartacei, i viaggi, la corsa all’aperto, il benessere fisico, la luce del sole. È assurdo che ci siamo quasi dimenticati di tutto questo. Ripensando alla primavera del 2020, il Forum economico mondiale pubblicò un libro subito dopo l’inizio dei lockdown, intitolato “Il grande reset”. Un manifesto pomposo, spesso frainteso. Non parlava di socialismo, ma di una rivoluzione industriale globale, volta a spostare l’umanità dal mondo fisico a quello digitale: dalle macchine alle tastiere, dall’acciaio ai touchscreen, in nome dell’efficienza, della sorveglianza e dell’igiene.
Storicamente, abbiamo già visto cambiamenti simili. Nell’ultimo quarto del XIX secolo, l’agricoltura cedette il passo alle fabbriche urbane, spesso con imposizioni. Dopo la Rivoluzione bolscevica, Lenin non trovò di meglio che forzare l’elettrificazione della Russia. Sognare di convertire intere società da una tecnologia all’altra è roba da tiranni. Lo stesso è accaduto con i vent’anni di campagne sul “riscaldamento globale”, poi mutate in un vago “cambiamento climatico”, come se il clima non cambiasse da sé. Lo Stato si è arrogato il compito di gestire il tempo atmosferico. Follia.
Il grande reset era sulla stessa linea. I lockdown, giustificati da un virus, avevano l’ambizione industriale di costringerci alla dipendenza digitale. Dannoso per la salute, per la vita. Ora che abbiamo capito il gioco, stiamo opponendo resistenza attiva. Usiamo pure la tecnologia per migliorare la vita, ma non per controllarla o rovinarla, come sta facendo ora. Ognuno di noi deve ripensare e riscoprire ciò che abbiamo abbandonato: cucinare, fare giardinaggio, suonare uno strumento, leggere libri fisici o, semplicemente, salire su una canoa e remare su un lago.
Cose semplici. Cose belle. Cose reali.
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