Il Premierato, la «madre di tutte le riforme» di Giorgia Meloni

di Roberta Chiarello
11 Novembre 2025 18:00 Aggiornato: 12 Novembre 2025 16:14

La posta in gioco è la Repubblica. Quella del premierato, per Giorgia Meloni è la «madre di tutte le riforme». Al netto della retorica politica, la proposta di legge costituzionale mira a cambiare profondamente la forma di governo parlamentare italiana, introducendo l’elezione diretta del presidente del Consiglio, in sostituzione dell’attuale meccanismo che ne prevede la nomina dal Presidente della Repubblica, vincolata al voto di fiducia delle Camere. L’idea, nata in seno al programma elettorale di Fratelli d’Italia del 2022 come una più generica riforma in senso presidenziale dello Stato, ha preso la forma specifica del premierato e, dopo l’approvazione del Consiglio dei Ministri nel novembre 2023, ha completato il suo primo passaggio al Senato nel giugno 2024. Attualmente, il suo iter parlamentare è fermo in Commissione Affari Costituzionali della Camera, in attesa della doppia deliberazione richiesta per le leggi costituzionali.

La maggioranza di centrodestra sostiene che la riforma sia l’unica via per garantire la tanto agognata stabilità politica e per assicurare governi solidi e durevoli, ponendo fine al cronico valzer delle crisi di governo. Al contempo, la ritiene un’ineludibile restituzione di centralità alla sovranità popolare, rafforzando il legame tra l’urna e l’esecutivo. Le opposizioni, al contrario, paventano la (consueta) “deriva autoritaria” e una pericolosa rottura degli equilibri costituzionali. Secondo i critici, la riforma finirebbe per accentrare un potere eccessivo nelle mani del premier, depotenziando i contrappesi democratici, in primis il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica e quello del Parlamento.

L’urgenza della riforma è stata ribadita in una intervista a SkyTg24 dal ministro per le Riforme istituzionali e la semplificazione normativa, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ha sottolineato come il tentativo di «cambiare da sinistra a destra la forma di governo» si trascini da ben 40 anni. La Casellati ha inoltre difeso la legittimità democratica del progetto, affermando che il premierato «non rompe l’ordine repubblicano e non ha nessuna deriva autoritaria». L’esponente di Forza Italia ha anche quantificato il prezzo dell’instabilità, stimando che dieci anni di precarietà politica siano costati al Paese ben 265 miliardi di euro in oneri finanziari sul debito pubblico. Nonostante la lentezza dell’iter parlamentare, la Casellati si è mostrata fiduciosa, assicurando che la riforma «andrà in porto entro fine legislatura».

Il Premierato si configura come un vero e proprio cambiamento dell’architettura istituzionale. L’elemento cardine è l’elezione diretta a suffragio universale del Presidente del Consiglio per cinque anni, per non più di due legislature consecutive, che possono arrivare a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. A completare il quadro, la riforma impone che la legge elettorale preveda l’assegnazione di un premio di maggioranza su base nazionale, capace di assicurare stabilità e di dotare il premier di una maggioranza solida in entrambe le Camere.

Uno dei punti cruciali e più discussi è la norma “anti-ribaltoni”, voluta dall’Esecutivo Meloni per impedire la caduta dei governi eletti e che nel corso della legislatura si formino maggioranze diverse da quella uscita dalle urne. A tale scopo la riforma apporta modifiche all’articolo 94 della Costituzione in modo che, in caso di sfiducia al presidente del Consiglio eletto, il Capo dello Stato possa rinnovare l’incarico al medesimo o a un’altra figura espressione della stessa maggioranza, ma solo qualora accetti di portare avanti il programma elettorale iniziale. E solo in caso di ulteriore sfiducia si arriverebbe allo scioglimento delle Camere.

Il mutato status del premier ridimensiona concretamente le funzioni del Presidente della Repubblica, che non nomina più il titolare dell’Esecutivo, ma gli “conferisce l’incarico” dopo la sua elezione diretta da parte dei cittadini, limitandosi a ratificare la volontà popolare.
Inoltre, il Capo dello Stato non avrebbe più la facoltà (praticamente mai esercitata) di sciogliere una sola Camera, ma potrebbe scioglierle solo entrambe contemporaneamente, e la clausola che oggi ne consente lo scioglimento nel cosiddetto “semestre bianco” (gli ultimi sei mesi di mandato) verrebbe sostituita da una formula più rigida: il Presidente potrebbe sciogliere le Camere solo se ciò costituisse un “atto dovuto”.
Un’altra sottrazione dibattuta riguarda il potere simbolico e istituzionale del Quirinale di nominare fino a cinque senatori a vita “per altissimi meriti”. La riforma abroga questa facoltà, mantenendo come senatori a vita solo gli ex Presidenti della Repubblica.

La riforma, secondo i suoi sostenitori, garantirebbe un importante vantaggio: l’eliminazione dei governi tecnici o “di scopo” e la promozione di una corrispondenza netta tra l’esito del voto e la guida del Paese. L’elezione diretta, insomma, renderebbe i governi più autorevoli e responsabili agli occhi dell’elettorato. Le opposizioni e gran parte della dottrina costituzionale, invece, ritengono che il progetto sia rischioso per gli equilibri istituzionali. La critica principale si concentra sul depotenziamento dei poteri del Quirinale – ritenuto un argine fondamentale contro derive personalistiche – e sulla potenziale umiliazione del ruolo del Parlamento.

Mentre la legislatura di Giorgia Meloni avanza verso il suo epilogo naturale, la riforma del premierato si pone come un nodo decisivo per il futuro istituzionale dell’Italia. Se sarà approvata, l’assetto della nostra repubblica subirà una trasformazione profonda: un nuovo equilibrio fra Parlamento, Governo e Presidente della Repubblica, un diverso rapporto tra voto e investitura, una nuova cartografia del potere.

La palla, almeno per ora, è ferma nei corridoi della Camera, in attesa di un’approvazione che, se ottenuta a maggioranza semplice, farà risuonare l’unica vera campana d’appello in un tema di tale portata: quella del referendum popolare.

 


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