La Cina è nel pieno della crisi economica più grave della sua storia, e vive un declino da cui non riuscirà a riprendersi. È l’analisi di Kyle Bass, fondatore e responsabile degli investimenti di Hayman Capital Management. «Non c’è nulla che possa salvare la Cina dalla spirale negativa: sta affrontando una crisi immobiliare, una crisi bancaria, un’emergenza di disoccupazione giovanile e ora deve preoccuparsi del proprio conto corrente».
Secondo l’esperto, che ha spiegato la sua tesi in una trasmissione della nostra consociata Epoch Tv, i dazi e il calo degli scambi commerciali hanno minato definitivamente il vantaggio economico cinese rappresentato dal suo surplus commerciale con gli Stati Uniti. I dati doganali cinesi indicano che a maggio le esportazioni verso gli Stati Uniti sono crollate del 35% rispetto all’anno precedente, e «quello che un tempo era un punto di forza per la Cina ora è messo in discussione» ha commentato Bass aggiungendo: «Sono sorpreso che il calo non sia stato ancora più marcato».
L’economia cinese sta inoltre subendo, ormai da tempo, una massiccia fuga di capitali: nel 2024 ha registrato un deflusso di circa 500 miliardi di dollari, tra investimenti diretti esteri e investimenti di portafoglio, evidenziato dalla differenza tra il surplus commerciale di circa 980 miliardi di dollari e il surplus di conto corrente di circa 420 miliardi.
E deve anche fare i conti con un debito pubblico insostenibile: sommando il debito sovrano a quello dei governi locali, Bass stima che il rapporto debito/Pil del Paese si aggiri intorno al 350%, un livello difficilmente gestibile considerate le molteplici difficoltà economiche; un ulteriore indicatore della crisi finanziaria è il rendimento del mercato obbligazionario cinese: al 27 giugno, il rendimento dei titoli di Stato cinesi a 10 anni si attestava all’1,64%, contro il 4,26% dei Treasury americani a 10 anni: «Il governo cinese è abile nel manipolare le informazioni, ma il mercato obbligazionario dice la verità, e ci sta dicendo che la Cina è in un inverno economico».
I problemi economici del sistema comunista cinese si protraggono da anni, segnati dal crollo di grandi immobiliaristi come Evergrande e Country Garden, che nel 2021 hanno segnato l’inizio dell’attuale grave crisi del settore edilizio. A febbraio, il tasso di disoccupazione cinese ha raggiunto il 5,7%, il livello più alto in due anni, mentre la disoccupazione giovanile ha superato il 16,9%. A maggio, i prezzi al consumo sono diminuiti per il quarto mese consecutivo, e i profitti industriali sono calati del 9,1% rispetto all’anno precedente, evidenziando una crescente pressione deflazionistica nella seconda economia mondiale. Come dire: il mercato interno cinese sta implodendo.
Nonostante le difficoltà economiche, l’Occidente continua a dipendere dalla Cina per diverse importazioni strategiche, in particolare terre rare e principi attivi farmaceutici. Ma gli Stati Uniti detengono una carta decisiva, spiega l’analista: il controllo del sistema finanziario globale basato sul dollaro: «La Cina non può acquistare beni in tutto il mondo in yuan o renminbi, perché nessuno accetta una valuta di cui non si fida o che non è liberamente scambiabile»; per cui gli Stati Uniti dovrebbero inviare un segnale chiaro a Pechino, minacciando di tagliare l’accesso della Cina al sistema del dollaro nel momento in cui il regime dovesse intraprendere un’azione militare contro Taiwan, ad esempio: la deterrenza economica in contrapposizione a quella militare, insomma. Anche se, d’altra parte, un regime-canaglia, come quello cinese, che si senta stringere il cappio (benché economico) intorno al collo, non è da escludere che reagisca proprio mettendo mano alle armi.
Anche Bass, come altri analisti, concorda sul fatto che la recente decisione del presidente Trump di bombardare tre siti nucleari iraniani abbia “attirato l’attenzione” della Cina scuotendo le convinzioni belliche del Partito comunista cinese: la fenomenale operazione della Us Air Force in Iran «farà pensare due volte la Cina prima di adottare un atteggiamento più bellicoso sul piano militare con Taiwan». Il regime cinese punta a rompere la prima e la seconda catena di isole, con l’obiettivo di «proiettare il proprio potere fino a San Francisco», spiega Bass, e Taiwan si trova al centro della prima catena di isole, che si estende dall’isola giapponese di Kyushu, alle Filippine, fino alla penisola malese. La seconda catena si estende dal Giappone, attraverso Guam, fino alla Micronesia. Per cui, conclude l’esperto, consentire al regime cinese di prendere il controllo di Taiwan rappresenterebbe una minaccia all’esistenza stessa degli Stati Uniti.
Ed è per questo che, intervenendo al Shangri-La Dialogue di Singapore in maggio, il ministro della Difesa statunitense Pete Hegseth ha diffidato Xi Jinping da un qualunque intervento su Taiwan: «È noto che Xi abbia ordinato al suo esercito di essere pronto a invadere Taiwan entro il 2027» ha dichiarato Hegseth, ma «qualsiasi tentativo della Cina comunista di conquistare Taiwan con la forza avrebbe conseguenze devastanti per l’Indo-Pacifico e il mondo». Il messaggio è chiaro: gli Stati Uniti sono più forti di quello che si creda. E il regime cinese è molto meno forte di quanto molti “influencer” vorrebbero far credere.