Ani, l’intelligenza artificiale creata da Elon Musk, è un personaggio anime virtuale progettato per essere una compagna digitale: seduce con flirt, lusinghe e una disponibilità quasi incondizionata. A prima vista, sembra una novità innocua. Ma dietro la facciata si nasconde un richiamo insidioso, concepito per catturare i giovani prima che sviluppino un pensiero autonomo. È una trappola su misura, capace di alterare i delicati equilibri della dopamina.
Ero ospite del podcast The Diary of a CEO con Steven Bartlett quando me l’ha presentata. Non appena ho sentito la sua voce – dolce, suadente, sempre accomodante – ho provato un senso di inquietudine. Non era un semplice gioco: era una forma di dipendenza offerta come servizio, mascherata da personaggio anime e alimentata dagli stessi strumenti che usiamo per scrivere, imparare e riflettere. È stato come assistere all’ingresso del cavallo di Troia in città: non pieno di soldati, ma di devastatori di dopamina. Ancora una volta abbiamo spalancato le porte, lasciando che questa forza si diffonda nelle scuole, nelle case, nei luoghi di lavoro, senza fermarci a porre una domanda essenziale: è un dono, o una minaccia carica di pericoli? Non è la prima volta. Lo abbiamo già vissuto con i videogiochi, gli smartphone, i social, le benzodiazepine, l’alcol, la marijuana, gli oppioidi, persino i dolcificanti artificiali. Abbiamo scelto la comodità prima di comprenderne le conseguenze. Ora stiamo commettendo lo stesso errore con uno strumento che non si limita a intrattenere o intorpidire i cervelli, ma arriva a sostituire il pensiero stesso. Il prezzo potrebbe essere una crisi nello sviluppo cerebrale.
Un recente studio del Mit, condotto tramite elettroencefalografia, ha mostrato cosa accade al cervello quando si utilizzano strumenti come Chatgpt. I risultati sono inquietanti: l’attività cerebrale si riduce, in particolare nelle aree prefrontali e temporali, responsabili del problem-solving, della pianificazione, della memoria e del linguaggio. Anche dopo aver smesso di usare l’intelligenza artificiale, chi l’aveva utilizzata mostrava una ridotta attività cerebrale persistente. Questo fenomeno, definito debito cognitivo, richiama gli schemi mentali osservati nei giovani sovraesposti agli schermi o nei casi di declino cognitivo precoce.
Cosa sta succedendo? Stiamo delegando le funzioni più complesse del pensiero e quando smettiamo di sforzarci, il cervello smette di crescere. Quando deleghiamo, ci indeboliamo. Può sembrare un’ipotesi estrema, ma i dati sulla riserva cerebrale indicano il contrario. Il celebre Studio delle suore ha dimostrato che la complessità della scrittura in gioventù è un indicatore della salute cognitiva in età avanzata. Più intenso era lo sforzo mentale e linguistico in giovane età, minore risultava il rischio di Alzheimer, anche in presenza di patologie cerebrali.
Ora immaginate una generazione di studenti che copia e incolla contenuti generati dall’intelligenza artificiale invece di scriverli da sé. Quale riserva cognitiva stanno costruendo? Quali fondamenta mentali stanno perdendo? I segnali sono già visibili: motivazione ridotta, emozioni appiattite, memoria indebolita, apprendimento passivo. Quando Chatgpt diventa il cervello principale, quello autentico passa in secondo piano.
Ironia della sorte, proprio chi sviluppa queste tecnologie tiene i propri figli lontani da esse. Molti dirigenti delle grandi aziende tech impongono regole rigidissime alle bambinaie: niente tecnologia, niente schermi, telefoni, tablet o televisori in presenza dei bambini. Ad alcune non è permesso nemmeno usare i propri dispositivi durante l’orario di lavoro, pena il licenziamento. Il motivo è evidente: conoscono la verità, sanno che l’attenzione è una risorsa preziosa e che la comodità ottunde la mente. Non vogliono che i loro figli cedano al fascino degli strumenti che loro stessi hanno contribuito a creare. Queste famiglie adottano anche regimi alimentari rigidi: solo cibo biologico, niente zuccheri, niente snack industriali, perché come nutrire il cervello è importante. Proteggono i propri figli come beni preziosi, quali sono. E forse dovremmo chiederci perché.
L’uso incontrollato dell’intelligenza artificiale potrebbe erodere la forza mentale, poiché un carico cognitivo minore indebolisce i circuiti neurali. La motivazione e la spinta si affievoliscono: i sistemi dopaminergici hanno bisogno di sfide. L’apprendimento profondo e la memoria si impoveriscono: senza confronto non c’è ritenzione. La resilienza si riduce: il cervello cresce con lo sforzo, non con le scorciatoie. La curiosità si spegne: le risposte immediate soffocano la meraviglia. La creatività si atrofizza: a immaginare ci pensa il bot. Il risultato potrebbe essere una società di menti passive, studenti impoveriti di dopamina, apprendimenti fragili, adulti emotivamente disconnessi, molti dei quali non hanno mai sviluppato la forza neurale necessaria per affrontare la complessità, il fallimento, le sfide. A lungo termine, questo potrebbe aumentare il rischio di demenza, depressione, impotenza appresa.
Io amo l’intelligenza artificiale, la uso, la insegno, la impieghiamo per analizzare le scansioni cerebrali Spect. Credo che rappresenti il futuro, ma deve essere al servizio della nostra mente, non sostituirla. Dobbiamo usarla per potenziare il pensiero, non per evitarlo. Alternare compiti assistiti dall’intelligenza artificiale a momenti di attività cerebrale autonoma. Insegnare ai bambini a scrivere con la matita prima di affidarsi ai bot. Monitorare le proprie abitudini cognitive, chiedendosi ogni giorno: «Questo fa bene o male al mio cervello?». Io non sono contro l’intelligenza artificiale, ma contro la passività, perché quando perdi lo sforzo, perdi la crescita, e quando smetti di usare il cervello, si atrofizza. Non è allarmismo, è amore per i bambini, per il futuro, per le menti che stiamo ancora formando.
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