Elon Musk e Donald Trump hanno avuto un battibecco che si è fatto insolitamente acuto, finendo sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Dopo alcuni giorni di riflessione e considerazione, Elon si è scusato: «Mi pento di alcuni miei post sul presidente @realDonaldTrump la scorsa settimana. Sono andati troppo oltre». Il messaggio è breve e diretto, senza giri di parole. Si è scusato, senza pretesti, senza sarcasmo, senza elaborazioni. No, non si è rimangiato la sua opinione secondo cui Trump dovrebbe fare di più per sostenere i tagli al Doge.
Ha dei dubbi sul programma dei dazi. Pensa che il governo debba essere ridotto all’osso e che questo non stia accadendo. Ha dubbi su altri funzionari di gabinetto. Ha lasciato che la sua delusione andasse fuori controllo e ha pubblicato un post al riguardo. Si è scusato, non per le sue opinioni ma per il modo in cui si è lasciato trasportare. Disapprova soprattutto gli attacchi personali a Trump e le altre questioni che, a suo dire, «sono andate troppo oltre». E questo è bastato.
Si è percepito che la tensione è immediatamente calata. Anche se Trump non ha risposto, è stato sufficiente che un uomo dicesse semplicemente: «Mi dispiace». Ha fatto notizia a livello internazionale, se ne è parlato ovunque. Non solo perché la riconciliazione ha implicazioni politiche. È perché è sorprendente vedere qualcuno che si scusa davvero! Non è incredibile? Poche parole che non costano assolutamente nulla. Eppure, vengono dette raramente. Le persone si aggrappano a queste parole come a un tesoro personale, come se pronunciarle significasse rinunciare a una parte importante di sé. In un certo senso, è vero. Ed è proprio per questo che dovremmo sentirle dire di più.
“Mi dispiace” dovrebbe essere aggiunto a “per favore” e “grazie” come parole magiche. Ai bambini va insegnato, e non solo con le parole, ma anche con l’esempio. Devono sentire i loro genitori dirsi reciprocamente un sincero «mi dispiace». Devono osservare gli adulti che ammettono semplicemente i propri errori senza scusanti. Ma chissà perché, la pratica delle scuse genuine sembra essere scomparsa dalla cultura. Forse è dovuto a quello slogan popolare di un film del 1970: «Amore significa non dover mai dire “scusa”». Mia madre detestava questa frase, la trovava completamente sbagliata. Secondo lei, amare significa essere sempre pronti a chiedere scusa.
Eppure, si è impressa, come se non dire mai scusa fosse un atto d’amore. Ci sono eccezioni quando si è costretti da obblighi legali e solo teatralmente nelle pubbliche relazioni. Spesso sentiamo: “La Cnn desidera porgere le sue scuse per x, y e z”, ma sappiamo di certo che questo annuncio fa parte di un accordo legale e quindi non è sincero. Ultimamente ho sentito: «Ti devo delle scuse», ma così si sta ammettendo un debito, non sono vere scuse. Basta dire: mi dispiace molto. Né sono scuse autentiche quelle seguite immediatamente da una lunga serie di giustificazioni circostanziate e da un sottile biasimo nei confronti di tutti gli altri.
Non lo è nemmeno dire «Mi dispiace che ti sia arrabbiato» o «Non ti piace questa cosa e me ne dispiace». Sono tutti modi di dire banali e senza senso. Vedete quanti modi ingegnosi inventiamo per evitare di dire quella cosa? Perché? Ha a che fare con lo strano dolore che deriva dalla rinuncia all’ego. Verbalizzare la contrizione senza alibi è estremamente difficile. Bisogna farlo spesso per abituarsi, e invece quasi nessuno lo fa più. Le conseguenze che ne derivano sono estremamente pesanti. Il risentimento persiste e si aggrava con il passare del tempo, in politica come nei rapporti interpersonali.
Chiedere scusa implica umiltà ma, anche per questa, viviamo in tempi in cui è quasi assente. Gli influencer di oggi credono di migliorare avendo sempre ragione e mai torto. Le persone traggono beneficio dalla dopamina quando litigano piuttosto che quando vanno d’accordo. È un mondo di cani e gatti e sembra che ognuno cerchi di mangiare l’altro o di evitare di essere mangiato.
L’umiltà, la contrizione e il perdono come istituzioni culturali sembrano quasi estinte. Di conseguenza, la fiducia perduta non viene mai riconquistata, traducendosi in fratture permanenti e guerre a vita. Per tutti noi la vita è troppo breve per questo genere di assurdità, ogni ticchettio dell’orologio ci avvicina alla data di scadenza, a quel punto nulla ha più importanza. Quante volte avrete sentito qualcuno dire qualcosa di simile a: «sarei felice di fare pace e andare avanti come se nulla fosse, ma non finché non ricevo delle scuse». Io ho capito anni fa cosa significa: che non verrà mai sistemato nulla. Aspettare che qualcuno si scusi con voi significa aspettare fino alla morte. In sostanza, non c’è alcuna base esperenziale per aspettare che qualcun altro si scusi con voi.
C’è una sola risposta: fare la prima mossa. «Se ho fatto qualcosa di sbagliato, e sono certo che tu credi che l’abbia fatto, e senza dubbio avrei potuto gestire meglio il conflitto, voglio scusarmi sinceramente con te e chiederti perdono». Dite questo o qualcosa di simile – anche se il vostro sbaglio è minimo e l’altra persona ha torto marcio – e niente di più. Osservate quello che succede. È molto probabile che, nel giro di qualche giorno, quella persona vi parli e a quel punto potrete trovare una via di mezzo. Altrimenti, risentimenti, conflitti, rancori e odi interiori si accumuleranno nella nostra vita come pietre in sacchi di iuta che ci trasciniamo dietro ovunque. Ci rallentano e intorpidiscono lo spirito umano.
La fase che segue la contrizione è il perdono. Hannah Arendt in un famoso saggio ha scritto: «lo scopritore del ruolo del perdono nel regno delle vicende umane fu Gesù di Nazareth. Il fatto che abbia fatto questa scoperta in un contesto religioso e l’abbia articolata in un linguaggio religioso non è una ragione per prenderla meno sul serio nel senso strettamente laico». Il perdono, a differenza della vendetta, «è l’unica reazione che non si limita a reagire, ma agisce in modo nuovo e inaspettato, non condizionata dall’atto che l’ha provocata, e quindi libera dalle sue conseguenze sia chi perdona sia chi viene perdonato. La libertà insita nell’insegnamento di Gesù sul perdono è la libertà dalla vendetta, che comprende sia chi agisce sia chi soffre nell’incessante automatismo del processo d’azione, che di per sé non ha mai fine».
È bellissimo, ma c’è qualche motivo per parlare di perdono senza scuse? Probabilmente no. Ecco perché la tradizione cristiana ha enfatizzato a lungo la confessione, sia nel sacramento formale che nella semplice onestà personale con il proprio Creatore. Ammettere tutto. Sentirsi contriti. Impegnarsi a fare meglio. In questo modo tutte le cose si aggiustano. A quel punto, lasciamo perdere, andiamo avanti. Come dice Arendt, il campo del futuro è aperto, rinfrescato, una tela bianca su cui dipingere una nuova immagine. Finché ci aggrappiamo ai sogni di vendetta e alla rabbia del risentimento, la tela non può accettare una nuova immagine.
Facciamo il possibile per riportare in auge le scuse, l’espressione genuina di rammarico, il Mea Maxima Culpa colpendo il petto tre volte, senza pretesti, senza note a piè di pagina, senza parole di attenuazione, senza incolpare sottilmente gli altri. Siamo tutti imperfetti. Tutti sbagliamo. Una cultura in cui siamo onesti l’uno con l’altro è quella che può costruire un futuro più luminoso.
Elon ha indicato la strada e merita solo elogi. Twitter gli è costato 44 miliardi di dollari, ma le scuse non gli sono costate nulla. Queste ultime potrebbero rivelarsi più preziose.
Copyright Epoch Times