Dall’inizio del conflitto civile, il 15 aprile 2023, il Sudan è precipitato in un abisso di violenza che ha generato cifre spaventose: oltre 14 milioni di sfollati interni, 4 milioni di rifugiati e almeno 150 mila vittime, un dato considerato largamente sottostimato. Metà della popolazione, circa 25 milioni di persone, vive in condizioni di grave insicurezza alimentare. A moderare il dibattito è stata Alda Cappelletti, Senior Humanitarian Advisor di Intersos, che ha subito messo in chiaro la centralità della crisi: «Il Sudan non è un Paese lontano ma una realtà che ci interpella da vicino, con ripercussioni regionali e globali». Il conflitto, che vede contrapposte le Forze armate sudanesi del generale Abdel Fattah al Burhan e le Forze di supporto rapido (Rsf) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, non è, come ha spiegato l’analista Irene Panozzo, «uno scontro nato dal nulla tra due generali rivali». Le radici affondano in decenni di malgoverno sotto il regime di Omar al-Bashir, che ha armato e legittimato le milizie Janjaweed, poi evolutesi nelle Rsf. Panozzo ha sottolineato come la guerra sia alimentata da «forti squilibri economici, dal controllo delle miniere d’oro, dal ruolo di potenze regionali come Emirati e Arabia Saudita, e da fratture etniche e territoriali che segnano la storia sudanese».
La catastrofe umanitaria è stata descritta con parole drammatiche da Valerie Guarnieri, Assistant Executive Director del Programma alimentare mondiale (Pam): «Metà della popolazione vive in condizioni di grave insicurezza alimentare. In Darfur la carestia è già realtà. Abbiamo visto convogli di aiuti attaccati con droni, autisti uccisi, città come Al Fasher isolate e sotto assedio. Le persone sono costrette a nutrirsi di rifiuti o animali domestici pur di sopravvivere». Guarnieri ha denunciato la cronica insufficienza di fondi e gli ostacoli all’accesso degli aiuti, ma ha ribadito l’impegno sul campo: «Riusciamo a raggiungere 4 milioni di persone al mese, ma non è abbastanza. È indispensabile una mobilitazione globale: non possiamo lasciare il Sudan nell’ombra». L’impatto della crisi travalica i confini nazionali, come ha evidenziato Michele Morana, titolare della sede dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) di Addis Abeba: «Il Sudan non è solo un Paese in guerra, è una crisi regionale che destabilizza Etiopia, Sud Sudan e Ciad». Nonostante le difficoltà, la Cooperazione Italiana mantiene attivi 16 progetti per un valore di 61 milioni di euro.
Da parte sua, il direttore dell’Aics, Marco Rusconi, ha riaffermato l’impegno italiano: «Il Sudan rimane un Paese prioritario per la Cooperazione Italiana. Non si tratta solo di interventi emergenziali, ma di rafforzare le basi per un futuro di pace e sviluppo». Rusconi ha lodato la forza del Sistema Italia, composto da istituzioni, Ong, missionari e società civile, capace di «essere presenti dove altri si ritirano». L’appello finale è stato unanime: è necessaria un’azione mediatica e politica imminente. «Il Sudan è la peggiore crisi umanitaria del mondo, eppure non occupa i titoli dei giornali», ha osservato Panozzo. L’incontro si è chiuso con il potente richiamo di Valerie Guarnieri: «Gli aiuti sono vitali ma non bastano. Serve una soluzione politica e serve ora. Il popolo sudanese non può aspettare». Un messaggio chiaro: nessuna crisi è davvero lontana e il mondo non può più permettersi di distogliere lo sguardo.