Il ricco (di minerali) Zimbabwe sceglie l’America

di Redazione ETI//Darren Taylor
4 Maggio 2025 8:52 Aggiornato: 4 Maggio 2025 8:52

In un contesto di crisi economica profonda, segnata da inflazione, disoccupazione e povertà diffuse, lo Zimbabwe ha sorpreso gli osservatori internazionali diventando il primo Paese africano ad abolire i dazi sulle importazioni dagli Stati Uniti. Una decisione annunciata appena tre giorni dopo che l’amministrazione Trump aveva imposto un dazio del 18% sui beni zimbabwesi.

Il presidente Emmerson Mnangagwa, al potere dal 2017 dopo un colpo di Stato contro Robert Mugabe, ha motivato la scelta con l’obiettivo di «costruire una relazione reciprocamente vantaggiosa» con Washington. Il suo messaggio pubblicato il 5 aprile sulla piattaforma X è stato definito «molto favorevole agli Usa» dall’analista Susan Booysen dell’Università Nelson Mandela. In esso, Mnangagwa ha riconosciuto il «merito» delle misure protezionistiche adottate da Trump, definendole «uno strumento per proteggere occupazione e settori industriali».

Secondo l’Ufficio del Rappresentante Commerciale Usa,— l’agenzia che gestisce la politica commerciale internazionale, negozia accordi e rappresenta gli interessi commerciali americani —  gli scambi tra Stati Uniti e Zimbabwe rimangono contenuti. Nel 2024, le esportazioni americane, principalmente macchinari agricoli, sono state pari a 44 milioni di dollari, mentre le importazioni da Harare hanno raggiunto i 68 milioni, concentrate in ferroleghe, zucchero e tabacco. L’eliminazione dei dazi da parte di Mnangagwa punta a stimolare queste cifre, attirando investimenti e ampliando l’accesso ai mercati.

Nonostante le aperture verso Washington, il partito di governo Zanu-Pf — al potere ininterrottamente dal 1980 — resta accusato da Nazioni Unite e osservatori indipendenti di brogli elettorali e violazioni dei diritti umani. La Banca Mondiale continua a classificare lo Zimbabwe tra i Paesi più poveri, nonostante le ricchezze minerarie che includono oro, platino, diamanti, carbone e minerali critici come cromo, nichel e litio. Proprio questi ultimi hanno attratto l’attenzione degli Stati Uniti, che hanno esentato oro e altri minerali dai nuovi dazi, definendoli strategici per la sicurezza nazionale. Sono infatti fondamentali per la produzione di tecnologie avanzate, dalle batterie per veicoli elettrici ai sistemi di difesa.

La Cina, che domina il mercato mondiale dei minerali rari, ha investito massicciamente in Zimbabwe e controlla circa il 90% delle miniere del Paese, secondo uno studio del Centro per la Governance delle Risorse Naturali pubblicato nel settembre 2024. La mossa di Mnangagwa è dunque apparsa come un’apertura verso Washington che potrebbe incrinare i rapporti con Pechino. Razak ha sottolineato come anche il Sudafrica, storico partner commerciale dello Zimbabwe, potrebbe reagire negativamente. «Pretoria si aspetterà la rimozione dei dazi anche sui suoi prodotti», ha dichiarato l’economista, aggiungendo che altri Paesi della regione avrebbero preferito una risposta comune alle politiche di Trump. Il governo zimbabwese, per contro, ha difeso la propria autonomia decisionale.

L’interesse degli Stati Uniti per il settore minerario è legato in particolare al litio, sempre più centrale per le tecnologie digitali e la transizione energetica. Secondo il quotidiano statale The Herald, nel 2024 lo Zimbabwe ha prodotto 36,5 tonnellate d’oro e ha rivendicato di possedere il più grande giacimento di litio al mondo, con riserve capaci di coprire il 20% della domanda mondiale. L’economista Tapiwa Mupandawana ha confermato che la presenza cinese nel settore del litio è in espansione costante. Secondo Analytichem, azienda specializzata nell’analisi mineraria, «questi minerali sono la spina dorsale delle tecnologie che sostengono infrastrutture moderne e Industria 4.0».

Secondo l’analista Booysen, «l’accesso a oro e minerali strategici potrebbe spingere Washington a ricucire i rapporti con Harare», ma il cammino resta accidentato. Dal 2003, gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a dirigenti del partito Zanu-Pf, accusati di crimini contro i diritti umani, corruzione e frodi. Nel marzo 2024, l’amministrazione Biden ha rafforzato le misure contro Mnangagwa e dieci suoi collaboratori, compresa la moglie, per attività illecite.

L’Ufficio di Controllo dei Beni Stranieri del ministero del Tesoro americano — agenzia che gestisce le sanzioni economiche e commerciali contro soggetti ritenuti una minaccia per la sicurezza, la politica estera o l’economia statunitense — ha affermato che il presidente zimbabwese è coinvolto nel contrabbando di oro e diamanti e nell’intimidazione degli oppositori. «Supervisiona servizi di sicurezza responsabili della repressione violenta della società civile», si legge nella nota ufficiale. La first lady Auxillia Mnangagwa è accusata di «appropriazione indebita di beni pubblici e tangenti».

Una nota del ministero degli Esteri americano, pubblicata il 23 gennaio, ha ribadito l’intenzione americana di promuovere il commercio bilaterale con lo Zimbabwe, pur continuando a condannare «l’uso della violenza contro manifestanti pacifici» e la mancanza di progressi nelle riforme democratiche. «Il sostegno Usa al popolo zimbabwese, prevede anche la condanna di chi abusa delle risorse pubbliche e nega le libertà fondamentali».

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