I guerrieri volontari anti-Isis

Per alcuni militari essere inviati in Medio Oriente per combattere l’Isis è l’incubo peggiore, per altri un sogno che si realizza. Che sia a causa di un imperativo morale o che sia a causa dell’impulso a combattere di un militare abituato all’azione, attualmente ci sono trecento combattenti stranieri selezionati per combattere contro l’Isis, insieme a un centinaio di altri provenienti dagli Stati Uniti.

Vengono in gran parte da venti Paesi diversi tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Svezia e sono stati sezionati dopo un anno di ricerche da parte dell’istituto londinese Institute for Strategic Dialogue (ISD), che ha trovato combattenti anti-Isis anche dalle parti più remote del mondo, come Corea del Sud, Indonesia, Colombia. Il rapporto dettagliato della loro ricerca si è intitolato ‘Shooting in the Right Direction: Anti-Isis Foreign Fighters in Syria and Iraq’ (Combattere dalla parte giusta: combattenti anti-Isis stranieri in Siria e Iraq).

Henry Tuck, direttore di ricerca dell’ISD (Institute for Strategic Dialogue) e coautore dell’indagine, ha affermato: «Siamo rimasti un po’ sorpresi dai risultati: abbiamo cercato di contattare trecento delle persone selezionate e abbiamo trovato che un gran numero di loro sono veterani; molti sono originari di zone in cui negli ultimi dieci anni, c’è già stato un forte coinvolgimento militare nelle zone interessate [zone in cui ancora si combatte contro l’Isis, ndt]».

Tuttavia i piani e le intenzioni che alcuni di loro discutono regolarmente nelle chat on-line sembrano meno razionali: alcuni vanno avanti a lungo a discutere sull’itinerario da seguire per il viaggio; i nord americani, per esempio, tendono a programmare di arrivare in Europa, per passare poi attraverso la Turchia e infine arrivare in Iraq. Altri itinerari portano invece dall’Europa verso il Golfo Persico, per entrare da lì in Iraq; tuttavia tutti, una volta sul territorio, userebbero una rete di basi sicure per muoversi nella regione.

Anche se molti non possono vedere concretamente le azioni militari, le conversazioni on-line non secretate sul reclutamento, permettono di capire facilmente la linea del fronte. Tuck ha infatti affermato «Ciò che ci ha stupiti tanto, è stata la mancanza assoluta di segretezza! Parlano apertamente della rotta da prendere senza alcun problema e alcuni addirittura mettono in vendita oggetti personali con lo scopo di comprarsi i biglietti aerei per la missione».

RESPONSABILITÀ  MORALE

Anche se l’Isd ha rintracciato solo trecento di questi volontari, che si reperiscono facilmente sui sui social-media, ha stimato che potrebbero essercene almeno mille di questo tipo.

Tuck ha precisato che non sono molti [quelli selezionati, ndt], ma che queste persone sono per lo più uomini che sentono una sorta di obbligo morale nell’aiutare a sconfiggere l’Isis, molti sono veterani che hanno già prestato servizio in Iraq e Afghanistan e vorrebbero solo che il ‘lavoro fosse finito bene’. Anche se hanno il divieto di ricoinvolgersi nel conflitto, pena delle sanzioni governative, una volta casa, cercano altre vie per tornare. Aggiunge infatti: «Non sono considerati un pericolo, in definitiva stanno combattendo dalla stessa parte di molti altri governi e non hanno lo stesso rischio che hanno i combattenti dell’Isis una volta ritornati… E’ una sorta di spazzare sotto sotto il tappeto».

Sebbene l’ISD abbia impiegato mesi per valutare i profili individuali, molto possono essere trovati on-line in pochi minuti. Questi combattenti stranieri anti-Isis e i loro sostenitori sono attivi su Facebook e Twitter e spesso dichiarano apertamente le loro intenzioni e propositi.

Macer Gifford, cittadino inglese, nel suo profilo Twitter mostra chiaramente il suo status di combattente al fianco delle forze di difesa Curde. Si auto definisce ‘attivista dei diritti umani e sostenitore dell’anti-Isis’; spesso posta dei link di sue interviste rilasciate ai media internazionali, che riportano alla luce il problema di questi combattimenti chiamati ‘volontari intenzionali’. In uno degli ultimi tweet si lamentava delle recenti affermazioni della Turchia in cui (essa) accusava l’Inghilterra di combattere insieme agli YPG [Unità di Protezione Popolare, in curdo: Yekîneyên Parastina Gel, ndt] che sono considerati, da alcuni, ‘terroristi’. Gifford ribatte: «La Turchia minaccia i volontari internazionali e li etichetta come terroristi, ma noi crediamo nella democrazia e combattiamo contro l’Isis. Che follia?».

Gifford come molti altri di quelli selezionati dall’indagine esprimono la convinzione di avere la responsabilità morale di andare sul posto personalmente, a prescindere dal fatto che ci sia o no il supporto del governo. Proprio a questo proposito Gifford ha riposto ad alcune critiche mosse da vari commentatori che sostegno che lui, e gli altri come lui, dovrebbero starsene a casa, dicendo: «Lo chiamano, ‘immischiarsi’ io lo chiamo internazionalismo, umanitarismo e solidarietà. Le cose cattive succedono quando il bene non fa nulla». Non ha accettato tuttavia di rilasciare una intervista sebbene abbia risposto su Twitter alla domanda.

IL RITORNO A CASA

Parlando di missioni militari e delle loro conseguenze, è doveroso dire che il ritorno a casa è in netto contrasto con l’immagine romantica del combattente che torna dopo un’impresa che coinvolge tutto il mondo. Tuck e altri avvertono che c’è la possibilità di soffrire per tutta la vita delle conseguenze di una decisione del genere, anche se le autorità sono disposte a lasciar correre.

Michael Blais è un veterano del Royal Canadian Regiment e presidente e fondatore del Canadian Veterans Advocacy , che si occupa della salute e dei diritti dei veterani canadesi. Blais ha sostenuto di aver parlato personalmente con molti veterani, che hanno rivelato la loro intenzione di andare a combattere contro l’Isis. Ha precisato di non sapere se poi avessero seguito questo desiderio, ma che comunque, si sente preoccupato per l’impatto che ciò potrebbe avere a lungo termine. «Io devo ricordare loro dicendo: “cosa ti accadrebbe in caso di battaglie o eventi catastrofici? Devi renderti conto che gli ospedali da campo non sono come un viaggio in elicottero”. Non ci sarà sempre qualcuno che si prenderà cura di loro per tutta la vita» e se ci fossero delle ferite che richiedono cure costanti, sarà ancora peggio, perché comporterebbe degli alti rischi emotivi e psicologici. «Combattere è sempre combattere, la guerra è un trauma. Ci sono buone probabilità di procurarsi ferite fisiche e mentali»

Michael Blais aggiunge che l’Amministrazione dell’ospedale dei veterani canadesi potrebbe fare problemi, e nel caso negare le cure, per quei danni subiti in battaglia durante le azioni non autorizzate (contro l’Isis).
Sebbene la questione dei combattenti stranieri anti-Isis sia ancora lontana dall’attenzione pubblica canadese, il ricordo dei combattimenti degli ultimi dieci anni è ancora fresca; per molti veterani è proprio questa memoria degli eventi in Iraq e in Siria a motivarli e a stimolare il desiderio di tornare lì e finire il lavoro.

L’esperienza canadese in Afghanistan è stata davvero orribile, non c’è stata una guerra così dai tempi della guerra di Corea, quelli che sono stati liberati credono davvero nella missione.

 

Articolo in inglese: Hundreds of Western Anti-Isis Fighters Send Themselves to the Front


Traduzione di 
Fabio Cotroneo

 

 
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