Luciano Pavarotti, una voce per sempre

Di Alessandro Starnoni

Sono oramai dieci gli anni che ci separano dall’addio di uno degli ultimi eredi della tradizione italiana del Belcanto, Big Luciano Pavarotti. Poco prima e poco dopo di lui, infatti, ci hanno lasciato quasi tutti gli ultimi altri grandi del passato: in ordine cronologico, Franco Corelli nel 2003, Giuseppe di Stefano nel 2008 e Carlo Bergonzi nel 2014; in comune hanno tutti l’aver fatto parte dell’ultima generazione che ha conosciuto di persona l’arte del ‘recitar cantando’, e che ha potuto quindi raccontarla e diffonderla al mondo nel modo più autentico possibile.

Nell’anno della nascita di Big Luciano, il 1935, Giacomo Puccini era passato a miglior vita da undici anni e aveva lasciato dietro di sé la sua musica e le sue opere: l’Italia dell’epoca era in piena voga verista, ma il tenore di Modena era nato con Bellini nel cuore, o meglio, nelle corde.

La pasta della sua voce era infatti poco adatta al repertorio verista, nonostante fosse nato in quel periodo, e al contrario di quello che potrebbe suggerire il suo esordio a Reggio Emilia in La bohème (1961); anche se il ruolo di Rodolfo, assieme a quello di Calaf in Turandot, è forse uno dei pochi ruoli pucciniani che ancora ben gli si addiceva. In realtà la sua vocalità era quella caratteristica del tenore romantico, e Bellini rappresentava a pieno l’avvento della corrente romantica in Italia.

Pavarotti era nato come tenore lirico-leggero, per l’appunto, e la sua voce ricca di sentimento e discretamente calda da una parte, era saldamente legata alla tradizione classico-barocca dall’altra, risultando quindi piuttosto estesa; la grande estensione gli permetteva di cantare comodamente su tessiture alte, e questo le conferiva inevitabilmente un timbro equilibrato nel centro e più asciutto, chiaro e limpido man mano che il tenore saliva di nota. In breve, la sua non era una voce grossa e possente come quella di Corelli o di Pertile o di Caruso, ma agile ed estesa. Ecco perché i ruoli da tenore proposti da Rossini (in realtà ancora preromantico), Bellini, Donizetti, e in diversi casi anche da Verdi (tardo-romantico/verista), calzavano perfettamente con le sue qualità artistico-vocali. Ed è a questi infatti che si è dedicato, almeno agli inizi della sua carriera, e con i quali ha ottenuto la maggior soddisfazione artistica.

Gran parte delle opere di Puccini e di Verdi però rappresentavano il caso in cui la sua voce, seppur abbastanza corposa nei centri, era portata al limite perché dislocata dalla sua stessa natura ‘di grazia’. Non per niente nell’opera si parla spesso di repertorio, e ogni voce ha le sue caratteristiche uniche che possono esprimersi al meglio solo se fatte muovere nel loro giusto contesto di appartenenza. Ma l’influenza del verismo, assieme alle sue richieste sul modo di cantare più aperto e più spinto nei suoni, non poteva non farsi sentire, soprattutto in quegli anni, così Pavarotti ha ceduto nel tempo alla pressione di chi voleva sfruttare al massimo la sua immagine e la sua fama, e si è visto costretto ad accettare ruoli in opere espressamente veriste (Tosca, PagliacciIl Trovatore, ecc.).

Questo ha permesso ai critici di comparare la sua voce con quella dei tenori più spiccatamente veristi, come Caruso, Corelli o Del Monaco, e di metterne in risalto dei limiti che, in realtà, se considerata nel suo repertorio di appartenenza, non esistevano, anche se è vero che in quest’altro caso la concorrenza dei grandi tenori di grazia o lirici-leggeri del passato è abbastanza elevata. Ma a quel punto si tratta più di una questione di gusti personali e non di limiti dati da paragoni inappropriati. Tuttavia le grandi doti tecniche di cui disponeva Big Luciano, gli permettevano di addentrarsi lo stesso nei meandri dei repertori all’apparenza più ostici per le sue corde, senza che i più si potessero accorgere del minimo cedimento.

Ma quello che i critici e i puristi dell’opera e del belcanto non gli hanno forse ancora perdonato, non è tanto l’aver esteso il suo repertorio vocale al verismo ignorando troppo spesso la sua reale dote, bensì l’aver varcato con la sua voce le porte dei teatri d’opera, esibendosi in piazze, parchi e arene di tutto il mondo, modernizzando da una parte l’opera stessa, e sperimentando dall’altra sulle sue corde altri generi musicali, quali pop e soft-rock. Molti hanno visto infatti questa sua attività, nella parte finale della sua carriera, come un essersi fatto coinvolgere e travolgere dall’ondata consumistica dei tempi odierni, riducendo l’opera a un Nessun Dorma, o a qualche aria cantata da un palco da dietro un microfono per sbalordire milioni di persone, comprese quelle che ascoltavano dai televisori di casa. Alcuni ipotizzano che il teatro gli stesse troppo stretto e altri pensano che l’abbia fatto per ragioni più facilmente immaginabili, come l’inseguire fama e successo.

Ma la realtà è forse più semplicemente un’altra, e ha in qualche modo a che fare con l’esigenza di doversi adattare all’avanzare del tempo; Big Luciano era certamente consapevole di essere uno degli ultimi testimoni del Belcanto, e suo malgrado sapeva che l’opera, la musica come prima veniva intesa, era sulla strada della decadenza; un declino drammatico di un’intera epoca, dettato dal ritmo dei tempi che cambiavano, al quale era impossibile opporsi, e che coincideva per uno strano caso del destino con la fine della sua carriera. Così, proprio nel momento in cui tutto stava morendo, ha provato a salvarla, a tenerla in vita, lasciandola al cuore e alla mente delle persone.

Per saperne di più:

Tenori italiani: le 10 voci più grandi di sempre

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