Il senso del rating

di Jeffrey A. Tucker per ET USA
24 Maggio 2025 17:36 Aggiornato: 24 Maggio 2025 17:36

Il rating del debito pubblico statunitense ha subito un declassamento. Moody’s ha abbassato la valutazione dei titoli di Stato da Aaa ad Aa1, un cambiamento che potrebbe sembrare marginale, ma che in realtà è di grande rilievo. Per la prima volta in oltre un secolo, il debito del governo americano non ottiene più il punteggio massimo da tutte e tre le principali agenzie di rating: Moody’s, Fitch Ratings e Standard & Poor’s.

La ragione è evidente: il debito americano è fuori controllo. Il Parlamento non mostra alcun segnale concreto di voler ridurre la spesa pubblica per contenere l’indebitamento. Anzi, i parlamentari sembrano riluttanti persino a inserire nel bilancio destinato alla Casa Bianca misure di risparmio proposte dal Dipartimento per l’Efficienza Governativa (Doge), misure che rischierebbero di vanificare gli sforzi compiuti da figure come Elon Musk, amministratore delegato di Tesla e promotore di iniziative per la razionalizzazione della spesa.

Lungi dal riportare il bilancio ai livelli pre-pandemia, il Parlamento pare entusiasta di consolidare gli eccessi finanziari degli ultimi cinque anni. In questo contesto, le agenzie di rating hanno deciso di lanciare un segnale di cautela: gli Stati Uniti non rappresentano più un rischio di credito impeccabile. Gli investitori di tutto il mondo hanno buoni motivi per preoccuparsi.

Va detto che, se il bilancio del governo statunitense fosse valutato come quello di un’azienda privata, il suo rating precipiterebbe immediatamente ai minimi storici. Fortunatamente per Washington, il debito pubblico non è soggetto a questa logica. A differenza degli enti statali, municipali o delle imprese private, il governo federale gode di un privilegio unico: la Banca Centrale, ovvero la Federal Reserve. Quest’ultima è pronta a intervenire per sostenere il sistema finanziario e il governo in caso di crisi. Nessun altro Stato, città o emittente di debito privato dispone di un tale paracadute.

La capacità di stampare moneta è una prerogativa esclusiva del governo federale, il che elimina di fatto un premio di rischio reale sul debito pubblico. Questa situazione si protrae dal 1913, anno di fondazione della Federal Reserve, il cui scopo primario era proprio proteggere il debito pubblico e il sistema finanziario dalle turbolenze del mercato. In questo senso, la Fed ha svolto un lavoro eccellente, ma a un costo enorme per i cittadini: un dollaro del 1913, oggi vale 3 centesimi. Drammatico.

Per comprendere a pieno il significato di un rating creditizio, basta pensare al proprio scoring di credito personale. In passato, era necessario scavare a fondo per conoscerlo, e ci si interessava solo in occasioni specifiche, come la richiesta di un mutuo, un prestito auto o un contratto di affitto. Non era una questione centrale nella vita quotidiana. Oggi, invece, le cose sono cambiate: le notifiche sul telefono annunciano con enfasi l’aggiornamento del punteggio di credito, spingendo a controllare se sia aumentato o diminuito e a indagarne le cause.

Aprire una nuova carta di credito può penalizzarlo, poiché suggerisce l’intenzione di contrarre nuovo debito senza un aumento del reddito. Persino una semplice verifica del punteggio da parte di un ente può avere un impatto negativo, perché implica che si stia cercando un prestito. A volte, il punteggio cambia senza motivo apparente. Alcuni si lasciano coinvolgere da questo meccanismo, come si fa con i like sui social, ma per molti questa insistenza della banca nel farlo monitorare, diventa presto una fonte di fastidio o persino di paranoia.

C’è chi teme che l’ossessione per il punteggio di credito sia un preludio a un sistema di credito sociale simile a quello cinese. Sebbene questa ipotesi possa sembrare estrema, non è del tutto da escludere in un’epoca in cui tutto sembra possibile. Più probabilmente, l’insistenza sul monitoraggio costante del punteggio è semplicemente una conseguenza della tecnologia, che permette di metterlo sotto gli occhi di tutti in ogni momento. In fondo, non è necessariamente un male: incentiva disciplina e responsabilità finanziaria. Tuttavia, il sistema è inflessibile. Un pagamento mancato cinque anni fa può continuare a pesare sul punteggio, come una condanna che non conosce prescrizione.

Questa severità, che regola le finanze personali, è in netto contrasto con l’indulgenza riservata al debito pubblico federale. Le agenzie di rating sembrano perdonare il governo all’infinito, ignorando le scelte discutibili delle autorità fiscali e monetarie, dai salvataggi finanziari ai tassi di interesse azzerati, fino all’inflazione galoppante. Questo lassismo dura da un secolo, il che rende lecito chiedersi: perché il declassamento è arrivato proprio ora?

Una possibile spiegazione è che il downgrade coincida con la consapevolezza che il Parlamento non sta affrontando con serietà la crisi del debito. Ma c’era davvero qualcuno che si aspettava un cambio di rotta? Anche chi scrive aveva nutrito una breve speranza quando Elon Musk parlava di tagliare 2 mila miliardi di dollari in un anno. Quella cifra si è poi ridotta a mille miliardi, poi a 150 miliardi, e ora sembra che non si taglierà nulla.

Presto torneremo alla vecchia idea di Washington secondo cui “taglio” significa solo “rallentamento” della crescita della spesa. I repubblicani proclameranno vittoria, mentre i democratici e i media denunceranno la presunta crudeltà verso vedove, orfani, lavoratori e ceti popolari. È uno spettacolo che va in scena da decenni, sempre rinnovato.

Ma c’è un’altra ipotesi, più intrigante. La Federal Reserve si è mostrata poco collaborativa con l’amministrazione Trump. Il presidente chiede tassi di interesse più bassi, ma la Fed si rifiuta di abbassarli, opponendosi all’esecutivo in modo più netto di quanto abbia mai fatto nella sua storia. È possibile che la Banca Centrale non intenda assecondare Trump per ragioni politiche, ma anche perché l’amministrazione attuale è percepita a Washington come la più grande minaccia mai affrontata dalla pubblica amministrazione. Può sembrare un’esagerazione, ma basta poco per ribaltare la psicologia dei mercati finanziari.

La credibilità creditizia del debito pubblico dipende interamente dal potere della Federal Reserve. Senza la Banca Centrale, non sappiamo quale sarebbe il rating del debito: A, Bbb o addirittura D, sinonimo di default? Basti pensare che l’Illinois, con un debito pro capite di 10.915 dollari, ha un rating Bbb, il più basso tra gli Stati americani, che non dispongono di una banca centrale. Il governo federale, invece, con un debito pro capite di 106.200 dollari – dieci volte superiore – ottiene comunque un Aa1 per i suoi titoli di Stato. Questo dato, da solo, è eloquente.

Immaginiamo se ogni parlamentare avesse sul proprio telefono un’applicazione che mostrasse in tempo reale un rating creditizio realistico basato sul mercato, un punteggio aggiornato in base alle proposte di legge sulla spesa, alle dichiarazioni pubbliche e agli aumenti del tetto del debito. Ancora meglio sarebbe un sistema che blocchi la capacità di indebitamento se il rating scendesse troppo. In altre parole, se il governo federale fosse soggetto alla stessa disciplina fiscale imposta a ogni cittadino americano, le finanze pubbliche si rimetterebbero in sesto in tempi rapidissimi. E c’è una strada sicura per raggiungere questo obiettivo: abolire la Banca Centrale.

Copyright Epoch Times

Consigliati