Zuckerberg ci è o ci fa?

Di Dominick Sansone

Mark Zuckerberg ha ammesso che l’Fbi aveva informato Facebook sulla «propaganda russa» subito prima del rilascio della notizia sul laptop di Hunter Biden.

Ebbene, vale sicuramente la pena riflettere sul fatto che la principale agenzia federale delle forze dell’ordine della nazione abbia agito per influenzare l’esito di un’elezione presidenziale.

Quando gli è stato chiesto di rivelare il testo esatto della presunta richiesta dell’Fbi, Zuckerberg ha affermato che l’agenzia non ha mai effettivamente messo per iscritto nessuno dei suoi presunti avvertimenti.

Conveniente.

La società madre di Facebook, Meta, si è affrettata ad aggiustare leggermente il tiro della dichiarazione e ad affermare che le informazioni trasmesse dal suo Ceo non fossero una novità.

A loro dire, a causa dell’«interferenza russa» nelle elezioni del 2016 e secondo i suoi stessi rapporti di intelligence, l’Fbi si aspettava un’imminente diffusione di «disinformazione» e stava semplicemente avvertendo la società di social media sulla base di uno schema generale.

Il problema è che l’Fbi aveva già il laptop in suo possesso (ottenuto nel 2019) quando Zuckerberg ha detto che gli era stato intimato di «essere vigile» per un’imminente ondata di nuove bugie provenienti da quei fastidiosi russi. L’implicazione è che l’Fbi stava preparando consapevolmente le varie piattaforme di social media per censurare delle informazioni che sapeva essere effettivamente vere e non solo vere, ma dannose per uno specifico candidato presidenziale.

Allo stesso tempo, le storie che includevano menzogne sull’ex presidente Donald Trump erano libere – e sono ancora libere – di fluttuare impunemente nella sfera di Twitter e nel Metaverso (se non addirittura attivamente incoraggiate dagli amministratori del sito).

Zuckerberg si è lasciato sfuggire accidentalmente il fatto che il braccio militarizzato della burocrazia federale aveva attivamente influenzato le elezioni americane a favore del suo candidato preferito?

Gli attori partigiani dell’intelligence statunitense e delle forze dell’ordine federali hanno chiaramente sbagliato tutto nelle elezioni del 2016. Hanno erroneamente ipotizzato un’inevitabile perdita di Trump contro la cara-a-Washington Hillary Clinton e quindi hanno permesso che la situazione si svolgesse naturalmente.

Il punto di vista dei centri di potere metropolitani e degli hub «culturali» statunitensi ha riaffermato la conclusione scontata. Si credeva che le istituzioni esistenti – i media, l’industria dell’intrattenimento e l’establishment di Washington, incluso lo stesso Partito Repubblicano – avessero creato un ambiente in cui nessun estraneo politico avrebbe potuto conquistare la presidenza, specialmente uno che è stato sottoposto all’assalto. Si sono quindi schierati contro Trump. Nessuno avrebbe potuto sopportarlo.

Quella sicurezza si è poi rivelata ingiustificata.

È difficile, anche adesso, sottostimare il panico che ha avuto luogo a Washington alla vigilia dell’8 novembre 2016.

I social media sono stati martellati per la loro incapacità di lavorare attivamente contro la campagna di Trump. La burocrazia federale – non solo l’Fbi, ma tutti i servizi segreti e le forze dell’ordine, gli organismi di regolamentazione e le istituzioni esecutive in generale – è stata gettata in tilt con l’arrivo imminente di un leader populista di cui non si poteva essere sicuri si sarebbe piegato ad essa come i precedenti residenti dello Studio Ovale.

La «resistenza» ha preso forma.

A loro merito, hanno cercato di rimediare al 2016 ostacolando l’amministrazione del 45° presidente in ogni momento, incriminando, arrestando e indagando sui suoi alleati e sullo stesso Trump, oltre a inventare la storia secondo cui la propaganda russa è stata un fattore decisivo nel 2016 (uno sguardo alle «prove» raccolte dai comitati d’inchiesta del Congresso è sufficiente per convincere qualsiasi americano normale che pratica ancora l’arte perduta del buon senso che essa era nel migliore dei casi trascurabile). Forse hanno deciso di non lasciare il 2020 al caso elettorale.

L’altra spiegazione apparente per il commento di Zuckerberg è una decisione ragionata di fornire una copertura per il fatto che in realtà è stato Facebook a prendere l’iniziativa di censurare la storia. Non è certo assurdo immaginare che sia così.

L’istituzione ha chiaramente preferito Joe Biden a Trump. L’evidente pregiudizio di sinistra dei leader e dei dipendenti dei social media non è un segreto per nessuno. Molti hanno inoltre criticato l’influenza di Facebook nel versare decine di milioni di dollari nelle iniziative di voto del 2020 che si trovavano prevalentemente in distretti fortemente orientati verso il democratico (gli «Zuckerbucks», come vengono comunemente chiamati [bucks è un modo americano per indicare i dollari, ndr]).

Zuckerberg ha valutato questo come un momento opportuno per usare l’Fbi come capro espiatorio? Le forze dell’ordine stanno attualmente registrando bassi livelli record di fiducia pubblica dato il recente raid di Mar-a-Lago, quindi non è un’ipotesi folle che Facebook stesse tentando un metodo a basso costo per ripulire la sua immagine pubblica prendendo a calci Washington quando è giù.

La verità è che non ha molta importanza. Le risposte a queste domande sono in gran parte irrilevanti.

Pensare che la verità debba essere necessariamente o una o l‘altra si basa sulla falsa premessa che l’Fbi, l’establishment con sede a Washington in generale e i vari mezzi di distribuzione delle informazioni siano entità separate che non si coordinano tra loro per garantire risultati favorevoli per loro stessi.

Questi risultati favorevoli sono categoricamente contrari agli interessi della popolazione statunitense, il che non sorprende.

Gli enti dei social media come Facebook fungono da arbitri primari sulle informazioni trasmesse al popolo americano. La narrazione è in gran parte curata dalle fonti mediatiche «mainstream» aziendali che altrimenti non sarebbero in grado di competere con la nuova tecnologia di comunicazione scatenata da internet.

Senza lavorare attivamente in collaborazione con i giganti dei social media, i media tradizionali, come le reti via cavo e le pubblicazioni di grandi dimensioni, non potrebbero mantenere le redini delle notizie, dato il potere di proliferazione senza precedenti delle notizie crowdsourcing. Il loro controllo sulla narrazione e la loro capacità di dirigere la conversazione nazionale sarebbero in gran parte negati.

Si crea una relazione incestuosa in cui i social media non fungono da concorrente ma da operazione di riciclaggio dei tradizionali centri di distribuzione delle informazioni. La capacità di curare un discorso accettabile è più che protetta: è amplificata. Questo spiega perché la censura delle voci dissenzienti è una parte così essenziale di questo processo; è un meccanismo di difesa per proteggersi dagli sforzi del terreno per alterare e spostare quella conversazione nazionale.

La capacità di ogni individuo di mettere mi piace, condividere e commentare visibilmente la storia curata è diventata effettivamente parte della guerra dell’informazione. Le narrazioni dei media, create per servire un’agenda politica specifica, sono incorporate nell’identità online di un individuo. Un pugno Blm, un’emoji del vaccino o una bandiera dell’Ucraina in un nome, servono a integrare gli utenti in un’entità più grande di loro.

Il risultato inevitabile è stato l’ascesa degli «Npc» – letteralmente ‘personaggi non giocanti’, in riferimento ai personaggi dei videogiochi che non sono controllati da un utente umano ma dal computer, e ripetono lo stesso elenco di frasi preimpostato – come strumento per garantire una maggiore fedeltà al governo. Un attacco alla narrazione di quest’ultimo diventa successivamente un attacco agli individui che l’hanno assorbito e garantisce che l’Npc difenderà l’agenda prescritta con ancora più veemenza.

Non importa se Facebook o l’Fbi hanno preso l’iniziativa di censurare la storia del laptop di Biden. Operano come armi della stessa entità: il centro di potere degli Stati Uniti. Contrariamente a quanto molti sosterrebbero, a quest’ultimo non dispiace particolarmente Trump (almeno non personalmente). Quello che al centro di potere degli Stati Uniti non piace è ciò che Trump rappresenta: una sfida al loro mantenere le redini di tutto. Questo rende questa una battaglia esistenziale per loro. Tenere Trump lontano dall’incarico e mitigare la sua portata e influenza è una guerra per la sopravvivenza: la loro sopravvivenza, non la nostra.

Una volta compreso questo fatto, gli incessanti attacchi al vetriolo contro Trump e i suoi sostenitori, la commissione del 6 gennaio e le varie cause legali, la «collusione russa» e la «disinformazione» e ogni altro ‘uomo nero’ che dicono si nasconda sotto il letto americano è messo nella sua giusta prospettiva.

Siate attenti e restate concentrati.

 

Dominick Sansone è uno studente di dottorato presso l’Hillsdale College Van Andel Graduate School of Statesmanship. Collabora regolarmente con The Epoch Times ed è stato inoltre pubblicato su The American Conservative, The Federalist e Washington Examiner.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times

Articolo in inglese: Zuckerberg Slips Up—or Does He?

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