Un’alleanza sulla Cina a difesa della democrazia, intervista al senatore Malan

Di Alessandro Starnoni

In risposta al Partito Comunista Cinese (Pcc) che «afferma ripetutamente ed esplicitamente la sua intenzione di espandere la sua influenza globale», a inizio giugno è stata creata, a livello internazionale, un’alleanza interparlamentare sulla Cina (Inter-Parliamentary Alliance on China, Ipac). La coalizione è composta da un gruppo di 26 co-presidenti e legislatori interpartitici di alto livello, che lavorano per promuovere una risposta coordinata alle sfide poste dalla dittatura cinese.

L’impegno della coalizione «trascende la politica di partito e le tradizionali divisioni tra politica estera e politica interna», si legge sul sito. E l’11 giugno anche l’Italia è entrata a far parte del Comitato dei 26 co-presidenti, con i senatori Lucio Malan (vice capogruppo vicario Forza Italia) e Roberto Rampi (Partito Democratico, maggioranza).

In merito all’argomento, Epoch Times ha intervistato il senatore Lucio Malan, attualmente nella Commissione Affari Esteri, e dal 2013 anche presidente del Gruppo interparlamentare di amicizia Italia-Taiwan.

Perché ha pensato di unirsi a questa alleanza, perché crede sia importante?

«La Cina è un Paese potentissimo, è un Paese con disponibilità illimitate di denaro e dunque di pressione politica, e non essendo democratico ha il grosso vantaggio che il governo non deve rendere conto a nessuno di come impiega il suo denaro, i suoi soldati, i suoi materiali, la sua influenza politico-commerciale e diplomatica; e dunque è giusto e importante che ci sia un gruppo di parlamentari dei Paesi più importanti del mondo  ̶  in questo caso che hanno necessità di essere supportati da tante persone anche al di fuori dei parlamenti e da tanti altri parlamentari  ̶  che si occupa nelle riunioni di come tenere sotto controllo e proporre le contromisure adeguate per fronteggiare le azioni politiche intraprese dalla Cina. Per fare un esempio, parliamo di ciò che sta facendo la Cina a Hong Kong, delle minacce o quasi annunci di guerra contro Taiwan, insomma sono cose che fatte da un altro Paese sarebbero sotto l’attenzione di tutti, invece così non è».

Cosa pensa della posizione dell’Italia su Hong Kong?

«C’è un’indifferenza praticamente totale su Hong Kong, questo è uno dei problemi per cui l’Ipac viene costituito; se ne parla sì ma molto marginalmente: immaginiamo quello che è avvenuto per un singolo caso (assolutamente esecrabile) di George Floyd ucciso da un poliziotto non certo per ordine del governo, e vediamo che c’è una tempesta mondiale negli Stati Uniti, in Europa, manifestazioni, gente che si inginocchia eccetera; ma chi si inginocchia per quelli di Hong Kong, dove i poliziotti che fanno la stessa identica cosa che fece quel poliziotto, vengono puniti se non fanno quella cosa? Non come questo poliziotto che verrà punito (spero veramente) per aver fatto quello che ha fatto. Guarda caso nessuna si inginocchia [per Hong Kong, ndr], non ne parlano le prime pagine dei giornali se non una volta ogni tanto. Questa è una delle ragioni per cui occorre un’azione seria su questo punto di vista».

Manifestanti a Hong Kong
Screenshot mostra un gruppo di manifestanti a Hong Kong costretti dalla polizia a inginocchiarsi con la faccia rivolta verso un muro nel quartiere di Yau Ma Tei, Hong Kong. (Twitter)

I media cinesi in riferimento all’Ipac già parlano di forza ‘anti-cinese’, come risponderebbe?

«Io richiamo l’attenzione, mi piace molto il nome del Comitato che è “On China”, un gruppo interparlamentare sulla Cina, non contro la Cina. Noi siamo a favore del grande popolo cinese, siamo contro la politica dittatoriale la cui prima vittima è innanzitutto il popolo cinese, e non da ieri ma da 70 anni, con milioni e milioni di morti; contro la privazione totale della libertà ai cittadini, che sono sotto controllo in ogni istante della vita, e siamo naturalmente contro il tentativo, le varie mosse che ci sono per diffondere questo modello anche altrove; come dire, “no grazie”».

Siete a favore della Cina e contro il Partito Comunista Cinese (Pcc).

«Esattamente. Noi siamo contro la dittatura, ci fosse la dittatura o pericolo di dittatura in un altro grande Paese lo faremmo».

C’è un tribunale indipendente londinese, il China Tribunal, che ha di recente sentenziato che la Cina (Pcc) sta portando avanti da anni su larga scala la pratica del prelievo forzato di organi da prigionieri di coscienza (per la maggior parte dal gruppo spirituale del Falun Gong, ma anche da uiguri, buddisti tibetani ecc.), e ha esortato la comunità internazionale ad agire e a fare qualcosa. Mi chiedevo se l’Ipac può fare qualcosa a questo riguardo; cioè quanto può riuscire a essere realmente influente sulle scelte politiche dei rispettivi Paesi e in particolare dell’Italia, affinché il rispetto per la dignità umana sia una guida per le loro scelte future?

«Beh, dipenderà dalla nostra capacità di sviluppare idee, ma naturalmente dipenderà dalla volontà di recepirle; noi non possiamo pensare di ottenere il risultato da soli, non è questo il fine, ma di porre i problemi; noi dobbiamo porre i problemi all’attenzione dell’opinione pubblica, dei parlamenti, dei governi, avendo come finalità questo. Di conseguenza l’alleanza interparlamentare è proprio per avere come finalità questo. L’obiettivo della Cina, con i suoi immensi mezzi, con migliaia di persone dedite a questi, senza problemi di fondi, è quello di diffondere il potere visibile e meno visibile della Cina, diffondere i sistemi cinesi, diffondere l’influenza cinese nel mondo.

C’è bisogno di qualcuno che abbia il compito di tenere tutto questo sotto controllo. Poi se i Paesi, se l’opinione pubblica, se i parlamenti e i governi non vorranno seguire queste [indicazioni, ndr], ci sarà almeno una voce che chiederà una risposta. Ecco fino ad adesso è molto facile non rispondere: “Cosa fate a proposito della Cina?”, “Cosa fate sulla violazione dei diritti umani?”, questa mostruosità che lei ha citato [del prelievo forzato di organi, ndr], che io denuncio peraltro da anni  ̶  presentai una proposta in occasione delle Olimpiadi di Pechino nel 2008, con una lunga introduzione che precisava tutti i vari numerosi modi in cui si violavano in modo gravissimo i diritti umani  ̶  ecco che almeno qualcuno dia una risposta, che i governi debbano arrivare al punto di dire “non ce ne importa niente, va bene così”, oppure “facciamo questo, facciamo quello”».

Che responsabilità ha il Pcc per questa pandemia: sappiamo dei ritardi nelle comunicazioni, del fatto che molte cose sono state tenute nascoste, che l’Oms non ha ascoltato Taiwan ecc. L’Ipac può fare qualcosa anche a questo riguardo, nell’ottica di far emergere le responsabilità del Pcc?

«È un’occasione per fare emergere queste responsabilità. Io devo dire la responsabilità della Cina è innanzitutto quello di essere una dittatura senza trasparenza. Quando non c’è trasparenza, succede quello che successe con l’incidente di Chernobyl: in altri Paesi guarda caso non è successo, ma lì sì perché c’era una dittatura; quel tipo di incidente lì. Ma un incidente può succedere anche in un Paese democratico; in un Paese democratico però chiunque tenesse nascosto questo incidente poi la pagherebbe pesantemente. In una dittatura semmai anzi viene premiato. Nel 1986, l’incidente di Chernobyl che colpì direttamente molta parte dell’Europa, fu uno degli elementi (certamente c’erano una serie di elementi, come la pressione degli Usa, un regime ormai stanco ecc.) che contribuirono a far capire che non si poteva andare avanti in questo modo, che la dittatura non era la giusta via.

Dovrebbe essere la stessa cosa con il Covid adesso con la Cina: anche lì perché è stato tenuto nascosto? Perché in una dittatura (e a volte ci sono meccanismi così anche al di fuori delle dittature) i problemi non ci sono mai, il responsabile di caseggiato dice al responsabile del quartiere che va tutto bene, e così si sale e si sale e sono tutti contenti. Chi pone problemi viene visto male; chi denuncia un problema che rischia di danneggiare l’immagine o dell’intero Paese, dell’intero regime, o di parti di questo, rischia grosso. E infatti quel medico [Li Wenliang, ndr], il primo di cui si è avuto notizia che abbia denunciato, si è ammalato e poi è pure morto, e non è detto che sia morto di quella malattia tra l’altro, magari c’è stato qualche altro meccanismo extra ospedaliero.

Quindi dovrebbe o potrebbe essere la stessa cosa per il regime cinese se ci fosse o se c’è una sensibilità democratica. Io credo che uno dei problemi di oggi è che sì tutti dicono “bella cosa la democrazia” però quando si tratta di fare affari è tutto uguale. Non è uguale neanche per fare affari; perché se fai affari con un Paese dove lo Stato di diritto non è garantito, dove non c’è trasparenza, c’è rischio che i soldi di chi investe finiscano nelle mani di chi ha il potere di opprimere il prossimo e dunque anche di depredarlo».

Infatti abbiamo visto come col crollo dell’Urss, molti Paesi dell’Est abbiano ripreso il loro percorso di crescita senza la dittatura del comunismo. Potrebbe la Cina allo stesso modo diventare una ‘nuova nazione’ senza la dittatura del Pcc?

«Sembra utopico, ma la Repubblica di Cina, Taiwan, è un Paese assolutamente reale, non vive nei castelli della fate, sono 24 milioni di cittadini che devono lavorare più degli altri per avere le stesse cose degli altri, perché è un Paese che ufficialmente non esiste, perché con mossa assai poco saggia l’Onu ha deciso che questo Paese (che è un vincitore della Seconda Guerra Mondiale, è la Repubblica di Cina, non la Cina comunista, è il Paese che più a lungo ha combattuto in quella guerra contro le potenze dell’asse, è il Paese che ha avuto più perdite dell’Inghilterra, della Francia, e forse persino della Russia parlando di soldati morti in combattimento) debba essere messo da parte.

Taiwan è sotto continua minaccia militare cinese, eppure aveva già un benessere molto, molto superiore alla Cina (prima del grande sviluppo industriale della Cina continentale) e da decenni ha una democrazia assolutamente vera, con alternanza al potere, con Stato di diritto riconosciuto, e sono cinesi, non è che sono diversi. In un’epoca in cui parlare di differenze etniche è equiparato al peggiore dei razzismi, c’è qualcuno che è così razzista da dire che ai cinesi la democrazia non gli sta bene: i cittadini di Taiwan sono cinesi esattamente come gli altri, sono cinesi che parlano mandarino come a Pechino. Per cui sarebbe possibile; la libertà fa bene a chi ce l’ha e anche agli altri».

 

Intervista adattata per ragioni di brevità e chiarezza

 
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