Tempesta su Washington

Il 2020, l’anno in cui le Bellweather Counties presero un abbaglio

Di Camilla Antonini
L’autrice dell’articolo, Camilla Antonini, si è laureata in Scienze dei beni culturali nel 2011 presso l’Università degli Studi di Milano e si è in seguito specializzata in Discipline Cinematografiche presso l’Università degli Studi di Torino. È inoltre diplomata al Conservatorio e negli ultimi anni si è occupata di critica cinematografica.

 

No. Non è il capolavoro di Otto Preminger, anche se nessun titolo avrebbe potuto descrivere al meglio la 59ª elezione presidenziale degli Stati Uniti d’America. Del resto il 2020 ha cambiato il volto del mondo e, coerentemente con un’annata oltremodo particolare, anche la corsa alla Casa Bianca si sta rivelando differente da tutte quelle che l’hanno preceduta.  

È la notte del 3 novembre e Donald J. Trump sembra volare verso la riconferma alla carica di presidente degli Stati Uniti d’America. Nonostante i sondaggi lo dessero per  sconfitto e i media generalisti (e tendenzialmente propagandistici) abbiano ripetuto per mesi che ci sarebbe stata la cosiddetta blue wave, il Tycoon si presenta in netto vantaggio, soprattutto rispetto alle previsioni. Tuttavia, quali elezioni emblema dei tempi che stiamo vivendo, accade qualcosa di inaspettato e, durante la notte dell’Election Day, le macchine smettono di conteggiare i voti nei cosiddetti Swing States (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Georgia, Arizona, Nevada). Questi stati ‘contesi’ decidono chi sarà il nuovo presidente e il vantaggio accumulato sullo sfidante democratico Joe Biden è talmente ampio da far sembrare la sua ripresa, un’impresa impossibile. 

Le macchine si fermano quasi contemporaneamente (e questo porta taluni a pensare ad un’azione coordinata) e a tarda notte caricano una mole di voti (che Donald  Trump ha definito nel suo discorso del 22 dicembre «statisticamente impossibili») che iniziano a ribaltare l’esito e a mostrare il recupero «impossibile», possibile. Il Presidente dichiara inoltre che alle 6.31 (ora americana) in Michigan vengono caricate 147 mila 224  schede, di cui il 94% a favore di Joe Biden. Alle 4.42 il Wisconsin registra un carico di 143 mila 279 voti di cui solo una percentuale bassissima è a suo favore e la stessa cosa succede in Georgia all’una e mezza di notte. Lo spoglio procede lentamente per tutti i giorni  seguenti, con lo slogan dem Count every vote e la certificazione dei voti, che dovrebbe portare alla nomina dei grandi elettori, slitta a tempo indeterminato.

La notte stessa delle elezioni, il presidente Trump grida alla rigged election e promette di dare battaglia per garantire agli americani quella trasparenza che sembra mancare, in primis a causa dell’enorme mole di votanti che, spinti dai dem, hanno preferito il voto  postale, nel rispetto dello stay at home e del social distancing cavalcati a causa (o, come  esclama Donald Trump, con la scusa) del coronavirus, che lui da mesi chiama il «virus cinese». 

Nei giorni seguenti si aprono le indagini e viene chiesto ai cittadini americani di  farsi avanti qualora abbiano assistito a situazioni strane prima, durante e dopo lo spoglio  e la squadra dei legali del Presidente, capitanati da Rudolph Giuliani (ex sindaco della  città di New York, che tra il 1994 e il 2001, grazie alla politica di tolleranza zero, ridusse drasticamente la criminalità organizzata) portano avanti su più fronti i vari ricorsi. Iniziano così ad emergere numerosi problemi che vengono sottoposti all’attenzione dei giudici. 

Parallelamente si sviluppano le indagini di Sidney Powell e Lin Wood, che inizialmente si pensava facessero parte del team dei legali del Presidente e che poi si è scoperto agire in rappresentanza di We the people (ovvero il popolo americano). Sidney Powell è avvocato penalista e civilista specializzata in appelli (fu lei a portare avanti la  causa del Generale Flynn) e anche, in taluni Stati, procuratore generale. In una sentita  conferenza stampa del 20 novembre si occupa di Dominion (il sistema di macchine utilizzate per il conteggio dei voti) e del software Smartmatic e porta all’attenzione del popolo americano questo metodo utilizzato per tabulare i voti in ventotto dei cinquanta Stati. Dominion (società con sede legale a Toronto) è al centro dell’indagine della Powell e l’avvocato sostiene che questo sistema sia all’origine di una frode elettorale di proporzioni inimmaginabili. Si sostiene che sia stato tarato per contare i voti in modo corretto fino ad un certo punto e che, quando il candidato che deve vincere risulta svantaggiato, il software inverta la rotta e giri i  voti del candidato che si intende sfavorire, a vantaggio del primo. Da qui deriva la tanto dibattuta questione dei picchi statisticamente improbabili che sono stati caricati nella  tarda notte del 3, che hanno favorito il candidato dem e che hanno portato le contee cosiddette bellweather, che da quarant’anni sono in sintonia con quello che è l’esito  dell’elezione a livello nazionale, a prendere un abbaglio. E, stando alle parole del 45º presidente degli Usa, egli avrebbe conquistato 18 su 19 bellweather counties. Ma ormai si è capito che il 2020 è l’anno delle sorprese. 

Attorno a Dominion, oltre ai problemi legati al conteggio dei voti, si sono create situazioni a dir poco curiose, come il fatto che le macchine non dovessero essere  collegate ad internet (per evitare incursioni di hacker) e invece, secondo le accuse, lo erano. Oppure il cospicuo versamento di 400 milioni di dollari alla società che controlla Dominion Voting System da parte della banca svizzera Ubs, legata ai cinesi

Tuttavia, per comprendere appieno la complessità della situazione appare fondamentale aggiungere un ulteriore tassello, che complica ancor di più il già complesso quadro. Nel 2018 (in pieno RussiaGate, per intenderci) il presidente Donald J. Trump emise un Executive Order, con valore di legge, che mira a proteggere le elezioni americane da interferenze di Paesi stranieri. L’Executive Order pone l’America in situazione di emergenza nazionale e prevede che a 45 giorni dall’election day, il Director of National Intelligence presenti un report sullo svolgimento dell’elezione. Il Director of National Intelligence fa capo a 17 diverse agenzie, tra cui Cia ed Fbi e può accedere quindi alle informazioni a 360º. Nel caso in cui venissero certificate interferenze di Stati esteri nelle elezioni americane, oltre a sanzioni a questi ultimi, verrebbero sequestrati i beni delle società estere (che hanno alterato l’esito del voto) presenti sul suolo americano. 

Ma torniamo alle indagini del post elezione. L’agguerrito team dei legali del Presidente raccoglie una quantità enorme di prove e un gran numero di persone testimonia le irregolarità viste. Molti di questi raccontano poi di aver subito ritorsioni, minacce (sia alla propria persona sia alla propria famiglia), di aver perso il lavoro e altri ancora chiedono di poter rientrare nel programma di protezione dei testimoni. Solamente in Nevada vengono sottoposti ai giudici 80 faldoni di mille pagine ciascuno (80.000 pagine in totale) ed iniziano a deporre moltissimi testimoni. Tra le tante accuse, in Michigan, precisamente nella Contea Wayne, ai votanti ‘in presenza’ non veniva richiesta indietro l’eventuale scheda spedita per posta (lasciando aperta la possibilità che si esprimesse la propria preferenza –almeno- due volte).

Emergono anche gli inquietanti dati della contea di Antrim, sempre in Michigan, dove il tasso di errore risulta essere del 65% ed è  doveroso ricordare che la Federal Election Commission stabilisce che l’errore massimo  consentito è di un voto su 250000 schede, lo 0,0004%. Emergono le 500 caselle per il  deposito di voti non presidiate e quindi non sicure a Milwakee in Wisconsin. In Arizona  sono stati conteggiati 300 mila voti di persone inesistenti (che, oltretutto, su 4 milioni di votanti è il 7,5%) e Linda Brickman, capo del Partito Repubblicano nella contea di  Maricopa (dove si trova la capitale Phoenix), ha rilasciato testimonianza giurata in cui dichiara che non c’è stata la verifica della firma sulla busta, tramite il confronto di quest’ultima con quella sui registri ufficiali. Dichiara inoltre di aver visto la conversione operata dalle macchine Dominion di alcune schede per Donald Trump in favore di Joe  Biden.

Per comprendere come questo sia possibile è necessario tener conto delle parole del colonnello Phil Waldron, esperto di guerra informatica che ha lavorato nell’esercito per trent’anni. Egli dichiara che questo meccanismo è possibile in quanto le macchine sono tarate per girare il voto di default a favore del candidato che si vuole favorire. Il colonnello dichiara che le macchine erano collegate ad internet e che, per tal motivo, i  voti potevano essere manipolati anche a distanza, oltre che dagli operatori stessi. In ultima istanza spiega che le macchine scansionavano le schede, i dati venivano raccolti su  una chiavetta USB e spostati su un altro computer che spediva i dati al server centrale per l’elaborazione. A Francoforte… Ma perché?! Si inserisce in questi passaggi il  problema dei picchi della notte del 3, poiché la quantità di voti inseriti era di parecchio  superiore alla capacità delle macchine di raccoglierli. 

Ma ancor più prepotentemente emergono le falle di Pennsylvania e Georgia (dove, secondo le parole di Sydney Powell, si sono concentrati i maggiori brogli). È necessario tenere presente che sulla Georgia si sono accesi i riflettori anche a causa dell’elezione dei  due senatori del 5 gennaio (che per il Partito Repubblicano è di fondamentale importanza per mantenere la maggioranza presso il senato federale). È quindi di primaria importanza che l’elezione avvenga nel rispetto massimo delle leggi statali, che sia sicura e che non apra la strada a possibili ulteriori situazioni non chiare. 

Sydney Powell ci spiega che in Georgia, dove peraltro il governatore Brian Kemp è repubblicano, sono state acquistate le macchine Dominion dal segretario di Stato, Brad Raffensperger, senza bando di gara. È bene ricordare che il sistema Dominion era già balzato agli onori della cronaca nel 2006, con le elezioni del Venezuela. Per questo e per molti altri motivi, il Texas lo ha scartato all’inizio del 2020.

I legali dichiarano che in Georgia lo spoglio delle schede giunte per posta è iniziato prima del 3 novembre e senza scrutatori, che è stato consentito l’arrivo dei voti per posta anche dopo il 3 novembre e che, con la scusante del social distancing, gli scrutatori sono stati tenuti a  distanza (di anche 60 metri) e non hanno potuto verificare la firma dell’elettore, posta sulla busta contenente la scheda con le varie preferenze. In aggiunta a tutto questo, le schede originali sono state gettate via dopo la scansione, quando la legge statale prevede che vengano conservate per molti mesi successivi (proprio per avere la possibilità di  dirimere i possibili contenziosi). Anche il secondo riconteggio effettuato in Georgia non ha prodotto risultati affidabili, dato che sono emersi due blocchi di seimila schede che non  erano state conteggiate la prima volta e lo stesso segretario di Stato, Brad Raffensperger, ha ammesso che la contea di Fulton non lo ha effettuato correttamente e sarà dunque necessario procedere con un terzo ricalcolo. 

Poco felice appare anche la situazione in Pennsylvania dove, presso il senato statale, vengono sentiti i testimoni. All’udienza ha partecipato anche Rudy Giuliani, che in aggiunta alle dichiarazioni giurate dei testimoni, ha mostrato che 8.021 schede sono state spedite per posta da persone decedute, 30.000 voti effettuati di persona appartengono a  persone decedute e quasi 700 mila voti sono stati caricati di notte, senza gli scrutatori  presenti. Di questi, 320 mila sono stati caricati in 90 minuti e a distanza di un’ora è stato ripetuto il caricamento delle rimanenti schede. Peccato che sia impossibile fisicamente per la macchina caricare una tale mole di voti in così poco tempo. 

A fine dicembre, sempre in Pennsylvania, un gruppo di parlamentari dichiara che sono stati conteggiati 170.830 voti in più rispetto alle persone che, stando alle  dichiarazioni dei funzionari ufficiali, hanno votato. 

Per tutto il mese di novembre e per i primi giorni di dicembre si procede dunque con i ricorsi ai vari tribunali locali, a vario titolo rigettati in blocco per cavilli o vizi  formali e senza analizzare le prove. Tuttavia, vengono ascoltati i testimoni anche nei Senati del Michigan e dell’Arizona e nel corso di questa spasmodica attività legale si sviluppa un progetto parallelo, portato avanti da Phillip Kline, avvocato che indaga sulla frode postale collegata alla frode elettorale. Egli ha confrontato tramite verifica dei  registri ufficiali, i residenti nelle varie contee e gli iscritti all’elenco elettorale con i nomi di chi ha richiesto la scheda per posta ed ha in seguito votato per corrispondenza. Dalla  sua ricerca emergono schede fraudolente in numero pari a 204 mila in Georgia, 300 mila in  Arizona, 548 mila in Michigan e 121 mila in Pennsylvania. Ed è proprio nelle capitali di questi Stati che Joe Biden ‘fa il botto’ e, come dichiara Donald Trump, nel già citato discorso del 22 dicembre, è proprio qui che non si sono identificati gli elettori a mezzo di patente o carta d’identità, proprio nelle quattro capitali che hanno ribaltato l’esito dell’elezione (Milwakee in Wisconsin e Detroit in Michigan e anche Atlanta in Georgia e  Philadelphia in Pennsylvania). In queste città Joe Biden, poco seguito dai supporters nel  corso della scialba campagna elettorale trionfa e appare doveroso domandarsi come abbia potuto ottenere 11 milioni di voti in più rispetto a Barack Obama (nel 2008), innegabilmente più amato e più seguito. 

Tornando alle indagini dell’avvocato Kline, il suo Amistad Project ha portato alla  ribalta altri testimoni che hanno dichiarato, ad esempio, che in Wisconsin i lavoratori  delle poste hanno modificato la data delle schede giunte dopo il 3 novembre e che, per la  legge statale, non potrebbero essere inserite nel conteggio. A ciò si aggiungono le  dichiarazioni di alcuni autisti che lavoravano per la posta, cui venne dato l’ordine di  fermarsi in un determinato parcheggio, nel quale i camion vennero rubati. Secondo tali  dichiarazioni, sarebbero sparite così 288000 schede. 

Nonostante le evidenze portate avanti dai legali, i tribunali locali rigettano i vari  ricorsi e quando finalmente una causa riesce ad arrivare direttamente alla Corte Suprema, sette giudici su nove dichiarano di non volersi occupare del caso. 

Già. 

Il 7 dicembre, poco prima della Safe Harbor Date, la deadline per ciò che riguarda le  irregolarità (discorso diverso è per quanto portato avanti da Sidney Powell e Lin Wood  sulla frode) lo stato del Texas intenta una causa legale direttamente alla Corte Suprema Federale contro Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin per l’arbitraria modifica  delle leggi elettorali in questi quattro stati. Il Texas li accusa di aver violato, con la scusa della pandemia, le proprie costituzioni statali e accusa i governatori (tutti Democratici, tranne Brian Kemp della Georgia) di non aver discusso le varie modifiche in parlamento e di non essere ricorsi alla consultazione popolare. Insomma: di non aver seguito l’iter stabilito dalle leggi statali. Al ricorso del Texas si aggiungono altri 18 stati, oltre a 106 parlamentari repubblicani federali, oltre ai parlamenti di Georgia, Pennsylvania e Michigan… i parlamenti degli Stati accusati! 

Ciò nonostante, sette giudici della Corte Suprema Federale, forse con troppa  leggerezza, decidono di non entrare nel merito del ricorso e solo i giudici Samuel A. Alito e Clarence Thomas si dichiarano di opinione contraria e sostengono che il Texas avesse standing e fosse nel pieno diritto di portare questa causa fino alla Corte Suprema.  Ma è la maggioranza dei sette giudici contro i due a decidere e anche questa strada si  chiude. 

Certo, appare doveroso citare le dichiarazioni di Lin Wood, che forse potranno in parte far luce sul rifiuto della corte suprema. L’avvocato dichiara sul suo profilo Twitter  di essere in possesso di una conversazione tra lo Chief Justice della Corte Suprema (la carica  massima) John Roberts e Stephen Breyer, altro giudice della corte suprema. In questa  conversazione John Roberts avrebbe dichiarato che il ‘son of a…’ non sarebbe stato in  nessun caso rieletto. Lin Wood, avvocato specializzato in diffamazioni, si scaglia in un  attacco verbale (sui social) molto feroce contro il giudice, che definisce corrotto e che afferma dovrebbe dimettersi. 

Ora, secondo la società di ricerca Trafalgar Group, i cui risultati sono stati illustrati dal giornalista Sean Hannity su Fox News, il 53,2% dell’elettorato americano (non i  Trumpers, si badi bene!) è convinto che le elezioni siano state ‘truccate’ a tal punto da alterarne l’esito finale, mentre se passiamo all’elettorato specifico di Trump, ne è convinto il 74,6%. 

Consideriamo ancora che tra Parlamenti locali, il Parlamento federale e il Senato  (che è comunque il tallone d’Achille per Trump, dato che proprio qui si annidano in  maggior numero i Neocon, spregiativamente detti anche R.I.N.O.: Republican In Name  Only), l’elezione del 2020 ha fatto guadagnare al Partito Repubblicano il 67% delle  posizioni, secondo i dati forniti da The Epoch Times. Mettiamoci dunque nei panni  dell’elettore medio americano che ha davanti a sé la scheda elettorale ed esprime la sua preferenza per i repubblicani dei vari parlamenti locali, federali e del Senato… e poi vota per Joe Biden! Ma è sempre il 2020: non c’è limite alle situazioni quantomeno curiose. Consideriamo ancora che nel 2020 Donald Trump ha ricevuto 74 milioni di voti  (confermati!) che sono 12 milioni in più rispetto a quelli che ebbe nel 2016 e che è il  record assoluto di voti mai guadagnati prima (a parte i fantasmagorici 81 milioni di Joe  Biden). E si tenga presente che mai prima d’ora un presidente che ha visto non solo  confermati, ma addirittura esponenzialmente ampliati i propri elettori, ha perso le elezioni. 

Si tenga presente anche che alle elezioni primarie, Donald Trump ha ricevuto il 94% delle preferenze, 18 milioni di voti. Un altro record assoluto, eguagliato solo da  Clinton che di voti però ne prese 9 milioni. Mai prima d’ora le elezioni secondarie  vennero perse da un candidato che alle primarie ricevette almeno il 75% delle  preferenze. Questi dati è lo stesso presidente a fornirceli, durante un comizio del  dicembre 2020 in Georgia. 

Ma non è finita. 

Il presidente Trump ha ottenuto il 26% di voti dall’elettorato di colore, altro record  per il Partito Repubblicano dal 1960. E sul fronte ispanico non è andata di certo peggio. Si veda la mappa con le contee, ricordando che Joe Biden ne ha vinte 527 su 3143  (il 17%). E si tenga presente la blue wave dei sondaggisti, tanto sdoganata dai mainstream  media.

Si veda infine il servizio di NewsMax che informa di come Joe Biden abbia avuto  una performance decisamente peggiore di Barack Obama ed anche di Hillary Clinton in tutte le grandi città (a parte le capitali degli stati ‘contestati’: Atlanta in Georgia,  Philadelphia in Pennsylvania, Milwakee in Wisconsin e Detroit in Michigan, dove il  candidato dem ha battuto ogni record possibile ed immaginabile… ma è sempre il 2020 e niente è impossibile). 

Ora, alla luce di tutte queste situazioni non certamente cristalline, i parlamentari degli Stati di Georgia, Michigan, Pennsylvania, Wisconsin, Arizona, Nevada e New Mexico hanno deciso di far votare anche i loro elettori repubblicani a favore di Donald  Trump il 14 dicembre 2020, contrapponendosi così alla certificazione dei governatori di  questi stati in favore di Joe Biden. Attualmente il candidato dem ha 306 voti certificati, mentre Donald Trump ne ha 232, con l’aggiunta degli 84 che non sono stati certificati  dai parlamenti degli stati contesi. La procedura infatti dovrebbe prevedere la de certificazione dei voti democratici, pro Biden, attestati dai governatori e la successiva certificazione dei voti repubblicani, pro Trump. Ma è sempre il 2020 e le attività parlamentari, con la scusa della pandemia, si sono drasticamente ridotte. 

Si apre a questo punto un dubbio amletico su quello che potrà succedere il 6 gennaio alla riunione del Congresso, quando si dovrà decidere quale blocco di voti  accettare degli 84 che saranno in numero doppio. Sarà Mike Pence, in quanto presidente del Senato a decidere quali voti accettare e quali no? La Costituzione sancisce infatti che sia il Presidente del Senato e solo lui ad avere un ruolo attivo durante lo spoglio dei voti. Sarà Mike Pence a scegliere uno dei due blocchi di voti o a scartarli entrambi, portando così al voto della Camera dei Deputati, con un voto per Stato? O assegnando direttamente la vittoria a Donald Trump, che senza il blocco degli Stati contesi, passerebbe in  vantaggio con i suoi 232 voti certificati, contro i 222 di Joe Biden? O forse avevano  ragione dall’inizio i media mainstream e la vittoria verrà assegnata al candidato dem, dato che non ci sono né prove, né evidenze e, come ha dichiarato Paul Krebbs, direttore della Cisa (Cybersecurity and Infrastructure Security Agency), questa è stata l’elezione più  sicura della storia? 

Eppure, di opinione contraria a questa affermazione sono i 150 parlamentari e 12 senatori (Ted Cruz, Ron Johnson, James Lankford, Steve Daines, John Kennedy, Marsha Blackburn, Mike Braum, Cynthia Lummis, Roger Marshall, Bill Hagerty, Tommy  Tuberville, con capofila Josh Hawely) che il 2 gennaio hanno dichiarato che alla riunione del Congresso del 6 gennaio contesteranno i voti per Joe Biden. La loro contestazione  porterà all’apertura di un dibattito che consentirà, tra le altre cose, di portare al Congresso le prove della frode elettorale che, stando alle ultime dichiarazioni di Donald J. Trump e Rudy Giuliani, saranno rivelazioni di una portata epocale (ricordiamo che ancora non è stato reso pubblico il rapporto del Director of National Intelligence). 

Ad ogni modo, i 150 parlamentari e i 12 senatori hanno dichiarato che l’elezione del 2020 appare segnata da frodi elettorali senza paragoni e senza precedenti che derivano anche dalla cattiva applicazione delle leggi elettorali. Il senatore Josh Hawely punta il dito anche contro Facebook e Twitter, accusati di aver interferito nell’elezione. Dichiarano  inoltre che i magistrati non hanno avuto il coraggio di entrare nel merito dell’elezione  mentre sarebbe stato giusto per i tribunali occuparsi dell’enorme mole di prove fornite.  Per disinnescare la propaganda citano le contestazioni dei Democratici che ci furono nel  1969, nel 2001, nel 2005 e nel 2017 a seguito delle elezioni dei repubblicani Richard  Nixon (contro Hubert Humphrey), George W. Bush (prima contro Al Gore ed in  seguito contro John Kerry) e Donald Trump (contro Hillary Clinton), anche se non  furono di certo così tanti i parlamentari e i senatori dem a contestare gli esiti delle  elezioni. Un altro primato di questo 2020 i cui strascichi sembrano continuare nel 2021. Sostengono inoltre che, non potendo non far nulla davanti a tutte queste evidenze, il Congresso dovrebbe nominare una commissione elettorale che indaghi e che la stampa, i  mainstream media e le tv non possono ora cercare di far passare da sovversivi e  antidemocratici, loro e il quasi 40% di americani che, secondo la ricerca di Reutrer/Ipsos  (da loro citata), sono convinti che l’elezione sia stata truccata. 

Ora, poiché Hillary Clinton ha dichiarato pochi mesi fa che Joe Biden non avrebbe dovuto in  nessun caso concedere la vittoria, poiché Fareed Zakaria della Cnn ha fatto un video prima delle elezioni in cui ha spiegato molto chiaramente che cosa sarebbe potuto succedere (e che effettivamente è successo), poiché si attendevano per il 6 gennaio a Washington oltre un milione di supporter del presidente Trump e poiché, soprattutto, i mainstream media hanno poi iniziato a parlare del possibile golpe da parte di Trump, ci si aspettava forse dei ‘fuochi d’artificio’ all’annuncio della vittoria di Joe Biden? E soprattutto, con quale coraggio, dopo mesi di informazioni propagandistiche e di veri e propri ‘vuoti’ rispetto a tutto quello che si è mosso oltreoceano, può la stampa  parlarci di colpo di Stato del presidente Donald Trump? Quando appare chiaro che, più che un’elezione del Paese che pretende di proporsi a modello della perfetta democrazia,  le situazioni narrate sembrano raccontare un vero e proprio terzo mondo. Quando appare chiaro che invece che sporcare di inchiostro intere pagine dei quotidiani con le presunte intenzioni di Melania di chiedere il divorzio dal marito, sarebbe stato meglio analizzare i vari processi e le accuse mosse dagli avvocati del Presidente. Quando appare chiaro che, per evidenze molto meno forti, si è parlato per mesi e mesi del RussiaGate, del quale peraltro si è indagato senza riuscire a venire a capo di nulla. Quando sarebbe stato opportuno che tv e giornali narrassero delle indagini contro Hunter Biden, accusato riciclaggio di denaro.  

È stata forse questa una strategia per poter parlare di colpo di Stato nel caso in cui la nomina a presidente di Joe Biden non fosse così scontata? Certo è che la narrazione di Donald Trump come pazzo ed instabile perfettamente si adatta al colpo di Stato, al golpe. Certo è che i mainstream media dovranno presto confrontarsi con il grande risveglio di cui parla Seth Holehouse nel suo ultimo video, che è record di visualizzazioni, ed iniziare a fare ammenda per anni e anni di disinformazione. Certo è che sarebbe tutto più sano se la stampa non fosse così smaccatamente schierata ed informasse davvero, invece che darsi alla bieca propaganda.

 

Le posizioni espresse in questo articolo sono opinioni dell’autore e non necessariamente riflettono le vedute di Epoch Times.

 
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