Le tecnologie di riconoscimento facciale, una spada a doppio taglio

Di Diane Dimond

Nella serie tv ‘Fbi’, l’agente speciale Jubal Valentine ordina bruscamente a un sottoposto di inserire una fotografia nel sistema di riconoscimento facciale per identificare un sospetto. E…boom! Dopo una ricerca lampo, il computer fornisce un nome e un indirizzo. Gli agenti sul campo entrano in azione e in pochissimo tempo, il criminale è agli arresti.

In realtà, però, non è così facile e il sistema stesso non è così preciso.

I programmi di riconoscimento facciale sono notoriamente poco affidabili e spesso scambiano un innocente per il colpevole. Nonostante questo, in realtà questi software si sono dimostrati molto efficaci per arrestare i criminali, sia i pesci piccoli che i più violenti.

Come spesso accade, le opinioni sull’argomento sono molto varie. Per i favorevoli, il riconoscimento facciale rappresenta un altro utile strumento a disposizione della polizia; per i contrari, è un mezzo per portare avanti le discriminazioni razziali, nascondendosi dietro la scusa della sicurezza pubblica.

Si parta dunque da alcuni fatti.

Uno studio recente negli Stati Uniti, condotto su 189 diversi algoritmi di riconoscimento facciale, ha confermato le ricerche precedenti: soprattutto nel caso delle persone di colore (in particolar modo le donne di colore), così come dei giovanissimi e degli anziani, si producono spesso identificazioni totalmente sbagliate. I nativi americani mostrano il livello maggiore di errori. Asiatici e afroamericani risultano identificati in modo errato 100 volte più spesso rispetto ai maschi bianchi. E anche gli abitanti delle isole del Pacifico vengono spesso identificati male.

Un esempio: a gennaio, Robert Williams, un padre di famiglia del Michigan, con un lavoro regolare, si è ritrovato improvvisamente ammanettato dalla polizia di Detroit nel suo cortile. Dei video di sorveglianza mostravano un uomo di colore robusto che rubava orologi costosi e il riconoscimento facciale lo ha collegato a Williams, che era incensurato e si è sempre dichiarato innocente. Se gli agenti gliel’avessero chiesto, avrebbe potuto subito provare che quel giorno era a lavoro. Invece Williams, umiliato, è stato accusato di furto di primo grado e trattenuto per 30 ore. Alla fine le accuse sono cadute, ma la sua fedina penale, stando almeno alle ultime notizie sull’argomento, non è stata ancora ripulita.

Un problema che in molti citano è che la polizia non è tenuta a rivelare al sospettato che la la polizia è arrivata a lui tramite un programma di riconoscimento facciale. E come dice l’avvocato Aimee Wyant di Pinellas County in Florida, «una volta che i poliziotti trovano un sospettato, sono come un cane con un osso: è il loro sospettato. Quindi dobbiamo capire come sono arrivati a quel nome in primo luogo».

Un dipartimento di law enforcement [le forze dell’ordine, ndt] su 4 negli Usa ha utilizzato il riconoscimento facciale nella ricerca dei sospetti, ma non ci sono statistiche precise sulla percentuale di errore. È noto che le donne e le minoranze vengono identificate male più frequentemente, ma di preciso quanto spesso?

L’Fbi, per esempio, effettua circa 4 mila controlli al mese usando un miscuglio di fotografie di quasi 120 milioni di americani, che vengono dalle patenti, dalle foto segnaletiche, dalle fedine penali minorili eccetera. E gli Stati che cooperano fornendo queste foto ottengono l’accesso al sistema dell’Fbi.

I sistemi nazionali di riconoscimento facciale negli Usa, però, sono poco controllati, nonostante siano sempre più usati da vari organizzazioni, dalla sorveglianza negli aeroporti fino alla dogana, alla sicurezza aziendale e comunitaria. Di fatto, sono più usati di quanto si possa immaginare.

Pochi anni fa, la American Civil Liberties Union ha testato il programma di riconoscimento facciale Rekognition di Amazon, inserendo le foto di tutti i membri del Congresso statunitense. Sorprendentemente, 28 membri sono stati identificati – per errore – come corrispondenti a foto di altre persone presenti nel database.

Nonostante tutti i difetti, però, le stazioni di polizia in tutto il Paese possono testimoniare che una grande quantità di casi è stata risolta grazie a un software di riconoscimento facciale. Ci sono state condanne per violenza sessuale su minori, per crimini di proprietà, frodi delle carte di credito, effrazioni, rapine e furti d’auto, così come omicidi irrisolti e casi di litigi nel traffico.

I bravi detective sanno che una corrispondenza trovata con il riconoscimento facciale è solo l’inizio: bisogna poi indagare sull’alibi, i testimoni e l’analisi delle prove forensi, prima di procedere a un arresto. È sempre andata così? No. I poliziotti imparano dagli sbagli? Si spera.

Diane Dimond è un’autrice e giornalista investigativa. Il suo ultimo libro è “Thinking Outside the Crime and Justice Box”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non riflettono necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

 
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