Taiwanese processato in Cina per «sovversione»

L’11 settembre la corte cinese ha tenuto un processo pubblico in diretta per condannare Lee Ming-che, un attivista dei diritti umani taiwanese arrestato in Cina nel marzo di quest’anno, accusandolo di «sovversione», secondo il ‘capo di accusa’ che il regime dittatoriale cinese usa in questi casi.

Lee Ming-che è il primo cittadino taiwanese a diventare un prigioniero politico in Cina, e il suo caso ha suscitato una considerevole attenzione internazionale. Organizzazioni di Diritti umani, insieme alla moglie dell’attivista Lee Ching-yu, hanno criticato sia il trattamento che il regime cinese ha riservato a Lee che il processo, definito «una farsa».

Lee Ming-che era scomparso lo scorso marzo dopo aver tentato di entrare in Cina da Macao attraverso Zhuhai nella regione del Guandong (a Sud ovest della Cina). Il regime cinese più tardi ha confermato di averlo arrestato e accusato di un reato che viene chiamato «sovversione» [precisamente: «per incitamento alla sovversione contro il potere dello Stato», ndt]. I crimini imputati al Lee Ming-che consistono nell’aver spedito libri e materiali ad amici residenti in Cina, interessati ai diritti umani, e aver creato una chat on-line di discussione con altri avvocati di diritti umani cinesi.
L’11 settembre, dopo 170 giorni di carcere, il 42enne Lee è stato presentato al processo della Corte Popolare di Yueyang nella regione del Hunan e, secondo quanto si dice, è stato trasmesso in diretta sul canale Weibo della corte [Sina Weibo è l’equivalente cinese di Twitter, ndr], apparentemente per dimostrare che il processo fosse imparziale e aperto. È stato processato con il suo co-imputato Peng Yuhua che, presumibilmente, aveva partecipato alla chat di gruppo on-line definita «sovversiva».

Nel video si può vedere un uomo visibilmente sconvolto, dichiararsi ‘colpevole’ dell’accusa di «sovvertire il potere dello stato» mentre legge un discorso in cui afferma che la colpa delle sue azioni è da attribuire «al falso ritratto della Cina che i media taiwanesi diffondono». Ha inoltre espresso «gratitudine» alle autorità cinesi e ha detto di aver visto quanto «giusto e progredito sia il sistema giuridico cinese».

Come è tipico nel sistema giudiziario cinese, in nessuna parte del video trasmesso si vede un avvocato difensore parlare in difesa dell’imputato e non c’è nessuna dichiarazione che contraddica l’accusa; il processo finisce con le «confessioni» sia di Lee che di Peng, in seguito alle quali la corte annuncia che la data dell’udienza in cui pronuncerà la sentenza verrà comunicata in futuro.

Lee Ching-yu, moglie dell’imputato, a cui è stato permesso di viaggiare in Cina e partecipare al processo di lunedì, ha rilasciato una dichiarazione chiedendo al popolo di Taiwan di perdonare suo marito per «l’imbarazzante confessione» che è stato obbligato a deporre nell’aula sotto pressione. Le autorità cinesi hanno permesso alla moglie di Lee di entrare nell’aula solo a meta del processo.

La moglie dell’attivista, Lee Ching-yu, posta su facebook un messaggio di sostegno al marito scrivendo sulle sue braccia «Sono orgogliosa di te Lee Ming-che!»

Il canale Weibo della corte ha pubblicato diverse foto dell’udienza, tra cui una in cui si mostra Lee Ching-yu insieme al marito mentre si tengono per mano.
Sin dal suo arresto a Lee Ming-che non era stato permesso di aver nessuna comunicazione con il mondo esterno, nemmeno con la moglie o la famiglia. La moglie dopo il processo ha scritto su Facebook che il marito aveva paura di parlare con lei e l’unica cosa che potevano fare era tenersi per mano e guardarsi reciprocamente.

Prima di arrivare in Cina per l’udienza Lee Ching-yu aveva lanciato una massiccia campagna pubblica nel tentativo di ottenere il rilascio del marito. Ad aprile, aveva tentato di andare in Cina, ma le era stato negato l’imbarco nell’aeroporto di Taoyuan e le autorità di frontiera del regime comunista le avevano revocato il permesso di entrare nel Paese. In maggio, era volata negli Stati Uniti per parlare al Congresso degli Stati Uniti incontrando varie Ong dei diritti umani ed alcuni funzionari della amministrazione Trump.
L’opinione pubblica taiwanese ha reagito al processo con rabbia: molti cittadini hanno usato un hastag con le parole «Siamo tutti con te Lee Ming-che», e sui social media hanno espresso la loro solidarietà al caso.

Il Consiglio degli Affari Interni di Taiwan, l’ente ufficiale del Paese nei rapporti con Cina, ha spedito un team di consiglieri e assistenti per accompagnare la moglie di Lee in Cina, e rilasciato una dichiarazione l’11 settembre, il giorno del processo, dicendo che era molto «deluso» del fatto che il governo cinese non avesse seguito le normali procedure.
A dispetto di questo i taiwanesi vedono la risposta del governo al caso ancora troppo debole e insufficiente per dimostrare la risolutezza del Paese. Precedentemente l’amministrazione di Tsai Ing-wen aveva cercato di minimizzare il confronto con l’ostile regime cinese dell’altra parte dello stretto. Dopo che diversi servizi giornalistici avevano messo in luce le discrepanze tra la campagna di alto profilo pubblico di Lee Ching-yu e l’approccio di basso profilo del governo taiwanese, l’amministrazione Tsai ha pubblicamente promesso di aumentare gli sforzi per salvare Lee.

Il caso di Lee è particolarmente degno di nota poiché è il primo in cui un cittadino taiwanese è registrato come prigioniero politico in Cina nel database dei prigionieri politici della Commissione Esecutiva sulla Cina del Congresso degli Stati Uniti.

Articolo in inglese: China Holds Show Trial to Convict Imprisoned Taiwanese Rights

Traduzione di Fabio Cotroneo

 
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