Taiwan, Hong Kong e Singapore: modelli nella lotta al Covid-19

Di David Kilgour

Come il Titanic, che nel 1912 si è improvvisamente scontrato contro un enorme iceberg, così il nuovo letale coronavirus ha colpito la città cinese di Wuhan alla fine del 2019. I medici locali ne avevano scoperto l’esistenza all’inizio di dicembre, ma il virus – che anche per questo è noto come il virus del Pcc – è stato deliberatamente nascosto alla popolazione dalle autorità del Partito Comunista Cinese; così si è potuto trasformare nell’onda anomala che ha già travolto almeno 152 dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite.

In mezzo ai cupi scenari dipinti in questi giorni dalla stampa e dai social, i politici di tutto il mondo, così come i privati cittadini, dovrebbero prestare molta attenzione a quello che alcuni governi hanno fatto per contenere la pandemia, e cercare di comprendere perché invece altri Paesi stanno subendo perdite così pesanti.

Per evitare che la nave globale – che molti pensavano fosse inaffondabile – vada a urtare contro gli scogli, bisogna imparare le lezioni forniteci dal primo gruppo di Paesi che stanno attraversando questa crisi. Gli esempi più notevoli sono quelli di Taiwan, Hong Kong e Singapore, che finora sono riusciti a limitare al minimo le perdite, sebbene siano tutti Paesi geograficamente molto vicini alla Cina ed abbiano forti legami linguistici, economici e culturali con essa. Questo risultato è legato probabilmente agli efficaci sistemi di test e di tracciamento delle persone infette.

Taiwan è di fatto esclusa sia dalle Nazioni Unite che dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a causa della precisa volontà del Partito unico di Pechino, membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Nonostante questo, si è dimostrata la nazione più capace (insieme a Singapore e alla provincia a statuto speciale di Hong Kong) a proteggere i suoi quasi 24 milioni di abitanti dalla malattia.

I primi casi di Covid-19 sono stati confermati durante la stessa settimana in Italia e a Taiwan, ma al 26 marzo il bilancio dell’epidemia è tragicamente diverso: in Italia si contano infatti oltre 80 mila casi confermati e 8 mila e 200 decessi, mentre a Taiwan i casi confermati sono 252, con appena 2 decessi totali. Le circa 100 misure di sicurezza adottate dal governo di Taiwan includono lo screening dei voli provenienti da Wuhan già dal 31 dicembre, il divieto di soggiorno a Wuhan dal 23 gennaio, la sospensione delle visite turistiche nello Hubei dal 25 gennaio e il divieto di ingresso per tutte le persone provenienti dalla Cina a partire dal 6 febbraio.

Il governo di Taipei ha unito i resoconti dei viaggi internazionali recenti dei cittadini con le loro cartelle sanitarie digitali, e ha permesso a medici e farmacisti di accedere a queste informazioni. Inoltre sono state applicate multe severe per chi, pur provenendo dall’estero, non rispetta le misure di quarantena.

Singapore ha adottato un approccio altrettanto rigoroso: ha impiegato la polizia per rintracciare i contatti dei residenti infetti e utilizzato cellulari forniti dal governo per tenere sotto controllo le persone in quarantena. Tre medici locali, in un articolo di giornale, hanno recentemente affermato che in questo modo «la relativa normalità della vita quotidiana è stata preservata».

L’approccio generale in tutte e tre le giurisdizioni è stato fondato su una serie di misure aggressive basate sulla previsione che il virus del Pcc si sarebbe diffuso rapidamente e ampiamente. Questo significava che i test diagnostici dovevano essere eseguiti tempestivamente. Oggi, la capacità di analisi del Covid-19 a Taiwan ha raggiunto i 3 mila e 400 campioni al giorno. I trasgressori delle norme di isolamento domestico sono stati multati fino a 5 mila dollari. Mentre il prezzo delle maschere chirurgiche è stato ridotto a 20 centesimi di dollaro e ne è stata notevolmente aumentata la produzione.

Al contrario, la maggior parte degli altri Paesi ha optato per strategie di contenimento tardive, sperando che l’emergente calamità internazionale non si rivelasse alla fine peggiore della Sars del 2002-2004 e dell’Ebola del 2014-2016. Purtroppo, la realtà ha dimostrato il contrario. Secondo la Johns Hopkins University, al 26 marzo, nel mondo ci sono più di 532.257 infetti e 24 mila deceduti.

Un altro fattore necessario da parte di tutti i governi è la trasparenza, l’allarme preventivo e una comunicazione chiara, onesta ed efficace con i cittadini.

Secondo il South China Morning Post, i dati del governo cinese indicano che il primo caso di Covid-19 è stato identificato nel novembre 2019. Uno studio dell’Università di Southampton (Regno Unito) ha concluso che se Pechino avesse rivelato i fatti e agito con tre settimane di anticipo, il numero di casi si sarebbe ridotto del 95 percento.

David Matas, membro della delegazione canadese alla conferenza delle Nazioni Unite sull’istituzione di una Corte penale internazionale, fa notare che la Cina, come Stato membro è soggetto alla Convenzione sulle armi biologiche: «A mio parere, la mancata segnalazione è una forma di occultamento in violazione della Convenzione. Anche gli Stati Uniti sono uno Stato parte del trattato, quindi, se scoprissero che la Cina ha agito in violazione degli obblighi derivanti dalle disposizioni della Convenzione, ritardando la segnalazione sulla presenza del coronavirus, gli Stati Uniti potrebbero presentare un reclamo al Consiglio di sicurezza».

Sebbene l’operato del Partito-Stato cinese ha probabilmente violato la Convenzione, i singoli cinesi, residenti in Cina o nelle diaspore di tutto il mondo, non sono in alcun modo responsabili per gli effetti catastrofici derivanti dalla mala gestione del Partito Comunista Cinese. Anzi molti di loro hanno agito da eroi, prendendosi costantemente cura degli altri.

Poiché in tutto il mondo, i professionisti del settore medico, i primi soccorritori, gli operatori sanitari e la popolazione in generale, stanno lottando contro una nuova catastrofe sanitaria, spesso con conoscenze e attrezzature inadeguate, le lezioni offerte da Taiwan, Hong Kong e Singapore potrebbero rivelarsi preziose.

 

Epoch Times chiama il nuovo coronavirus ‘virus del Pcc’ perché l’insabbiamento e la mala gestione del Partito Comunista Cinese (Pcc) hanno permesso al virus di diffondersi in tutta la Cina e di creare poi l’attuale pandemia globale.

David Kilgour è un avvocato che ha lavorato nella Camera dei Comuni del Canada per quasi 27 anni. Nel gabinetto di Jean Chretien, è stato segretario di Stato per Africa e America Latina e  Asia-Pacifico. È autore di diversi libri e coautore con David Matas di «Bloody Harvest»: Praticanti del Falun Gong uccisi per i loro organi.

Le opinioni espresse in quest’articolo sono quelle dell’autrice e non riflettono necessariamente quelle di Epoch Times.

Articolo in inglese:Taiwan, Hong Kong, and Singapore: Success Stories in Fight Against COVID-19

 
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