Storie d’umanità in un villaggio sul confine conteso tra India e Pakistan

Di Venus Upadhayaya

RAJOURI, India – Mentre erano in casa, una mattina di sette anni fa, Surjeet Prakash e Kailash hanno sentito uno sparo. Il loro villaggio, chiamato Kalal, si trova sul lato indiano del confine con il Pakistan: uno dei confini più instabili e contesi al mondo.

«Sono corsa nella stanza di mio figlio e ho chiesto se avessero sentito uno sparo», ha raccontato Devi, 64 anni. «Mia nuora ha risposto: ‘Madre, mi ha colpito’». Il proiettile che è entrato da una finestra, ha lacerato la gamba della nuora di Devi e del figlio addormentato, ed è passato attraverso una porta di legno prima di conficcarsi in un muro, dove sono esposte le loro foto di matrimonio.

Il 13 novembre India e Pakistan si sono scambiati colpi di artiglieria pesante e di mortaio, portando alla morte di soldati e cittadini su entrambi i lati del confine. Il 16 novembre, tre giorni dopo, un’inviata di Epoch Times si è recata in uno dei villaggi sul lato indiano per dare uno sguardo a quella che è la vita in quell’ambiente.

«È stato tutto così rapido», racconta Devi, la cui ampia veranda si affaccia su fattorie circondate da tre montagne coperte di foreste di pini. «Quei due ai lati sono l’India e uno al centro è il Pakistan», ha spiegato, descrivendo come gli indiani del posto vedono il confine conteso tra i due Stati.

Fuori dal loro grande cancello di metallo, le persone acquistano trapunte fatte a mano mentre altri fanno la spesa per le necessità quotidiane da un negozio di alimentari: tutti come se lo scontro transfrontaliero tra queste montagne – verificatosi il 13 novembre, appena un giorno prima del Diwali, la festa delle luci – non fosse mai avvenuto.

«Abbiamo paura, ma dove possiamo andare?» ha spiegato Prakash, 66 anni. «La nostra casa è qui, la nostra fattoria è qui. Tutta la nostra vita è qui».

A solo un miglio di distanza, Billo Devi, 58 anni, si prendeva cura del suo bestiame e suo marito, Shamsheer Singh, 68 anni, stava lavorando nei suoi campi, quando sono iniziate le sparatorie dall’altra parte del confine e i proiettili di mortaio hanno iniziato a cadere sul fianco della montagna. Il loro figlio di 40 anni, costretto a letto e non autosufficiente, era sdraiato su una branda in veranda, con il suo agnellino di una settimana legato a un pilastro vicino.

«Abbiamo immediatamente portato la branda di mio figlio nel bunker», ha spiegato, riferendosi a un rifugio difensivo sotterraneo finanziato dal governo indiano. «Ha piovuto di recente ed era pieno d’acqua, quindi abbiamo rimosso l’acqua con i secchi. Ci chiediamo sempre quando cadranno su di noi [le bombe, ndr]», confessa, con un sorriso che mal si accorda all’aspetto teso della sua fronte.

I residenti di ogni casa, a Kalal, hanno da raccontare la storia di un proiettile che ha colpito un muro, o magari un albero: «Fortunatamente, ha risparmiato le persone su questo lato. Anche adesso, mentre parliamo, non siamo al sicuro», ha dichiarato Ramesh Chaudhary, il sarpanch (capo eletto) di tre villaggi – Kalal, Deeing e Chak Sarkari – in un’intervista a casa di Prakash e Kailash Devi.

«Ogni volta che si spara, le persone si chiedono se resteranno vive per la cena. Una bomba è una bomba: non controlla la razza o la comunità prima che cada da qualche parte. Non vede la religione, indù o musulmana. La paura è paura».

Bunker allagati

Dieci minuti prima che entrasse a casa di Prakash e Kailash Devi, Chaudhary stava controllando le condizioni del bunker della scuola vicina, vuota a causa del blocco per il Covid-19.

Il governo indiano ha costruito bunker comunitari e rifugi familiari individuali al confine per i residenti, da utilizzare in caso di scontri militari. Ci sono 450 bunker nel panchayat di Chaudhary; ma ne sarebbero necessari altri 250. «Le persone hanno bisogno di bunker individuali perché le case sono molto sparse. Alcune case distano 50 metri, altre 100 e altre addirittura 200 metri l’una dall’altra. Chiediamo al governo centrale [amministrazione indiana a Nuova Delhi, ndr] di darci altri 250 bunker. Dovremmo essere in grado di costruire più bunker individuali».

Il governo federale indiano paga alla comunità 10,5 lakh (circa 12 mila euro) per costruire un bunker comunitario in questa regione di confine, mentre una famiglia può ricevere fino a 3,5 lakh (circa 4 mila euro) per costruire un bunker individuale.

Il bunker per la scuola sembra essere ancora in costruzione: i gradini in cemento conducono a un piccolo bagno dotato di poche tubazioni, non ancora funzionante. Altri 10 gradini al di sotto, c’è la stanza sotterranea, allagata di alcuni centimetri di acqua. Stretti fasci di luce si riflettono sull’acqua accumulata attraverso le fessure nelle due pareti: «Ogni volta che piove, l’acqua inizia a salire dal terreno. Se i bunker sono pieni d’acqua, come possono ripararsi le persone? I bunker devono essere sotterranei per sicurezza. Gli ingegneri del governo devono trovare soluzioni a questo problema», ha concluso Chaudhary.

A poca distanza dalla scuola, Prachi, di 8 anni, sta giocando con Preetika, di 18 mesi, mentre la madre del bambino lava gli utensili da cucina sotto un albero dove è legato il vitello di un bufalo. Chaudhary indica l’albero e dice: «Qui si è conficcato un proiettile». A dieci metri di distanza c’è il bunker di famiglia: è asciutto e pieno di mangime per il bestiame e una catasta di legna da ardere.

Sofferenza

Il leader locale ha spiegato che, anche se le persone nella zona sembrano vivere una vita normale, i problemi generali della vita e le preoccupazioni specifiche della regione si sono aggravati a causa del vicino confine conteso, e dei frequenti bombardamenti: «Le persone affrontano continuamente carenze di acqua potabile e cibo. I nostri figli vengono disturbati ogni volta che avvengono i bombardamenti. Non possono studiare normalmente. Chiediamo al nostro governo di fornirci 5 marla [30 iarde quadrate, ndr] di terra in un luogo più sicuro, in modo che i genitori possano allevare i loro figli lì, mentre il resto della gente può continuare a fare la sua agricoltura qui».

Secondo Chaudhary, negli ultimi due anni, più di 200 colpi di mortaio sono caduti nella sua regione. In piedi sulla sua terrazza, indica due case danneggiate da incendi transfrontalieri. «Anche la nostra scuola del villaggio non è stata risparmiata. Abbiamo lasciato le nostre case in Pakistan nel 1947 [dopo la divisione di India e Pakistan, ndr] e siamo venuti qui, e anche adesso la nostra situazione è la stessa che era al confine».

La nascita dell’India e del Pakistan dall’India coloniale ha visto più di 14 milioni di persone migrare nel Paese di loro scelta, incluso il nonno di Chaudhary.

La pandemia derivata dal virus del Pcc si è aggiunta ai problemi degli abitanti del confine: «Le persone che utilizzano autobus privati ​​per guadagnare e nutrire i propri figli hanno perso il lavoro. I lavoratori che lavoravano in altre città e paesi sono dovuti tornare a casa». Questa parte dell’India è così remota che le persone incontrano difficoltà nel contattare le autorità presso la sede del distretto nella città di Rajouri, che dista 43 km. Il figlio con necessità speciali di Billo Devi e Singh, Bunty, non ha ancora ricevuto una carta Adhaar, una carta d’identità unica basata su dati biometrici e demografici, perché i suoi genitori hanno difficoltà a trasportarlo a Rajouri. E non può ricevere alcun aiuto dal governo, inclusa la pensione mensile per invalidità, proprio perché non ha una tessera Adhaar.

«Ci vorranno 3.500 rupie [circa 42 euro] per noleggiare un taxi per trasportarlo, e avremmo bisogno di un appuntamento in anticipo», ha spiegato Singh, il padre.

«Vogliamo sviluppo»

Chaudhary ha spiegato che la cosa più importante e necessaria per lo sviluppo nella regione è l’istruzione, che soffre a causa dei bombardamenti: «In questo momento, le persone devono affittare case nelle città vicine per poter iscrivere i propri figli a scuole migliori lì. Se avessimo una buona istruzione qui, perché dovrebbero lasciare questa regione? Non è buono come dovrebbe essere».

Chaudhary, che era un camionista nella parte settentrionale dell’India, ha specificato di voler replicare ciò che aveva visto fuori dal villaggio, e aveva quindi deciso di ritornare e candidarsi per l’ufficio. Afferma di non appartenere ad alcun partito politico, e di aver vinto – dice – perché è onesto con le persone e capisce i loro problemi: «Ho già parlato di problemi legati alla mancanza di acqua potabile e di elettricità. Se avessimo strade migliori e buoni bunker, le persone non lascerebbero la regione». Nemmeno in caso di bombardamento.

 

Articolo in inglese: Inside a Village on the Volatile, Disputed India–Pakistan Border

 
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