Spezzare una lancia a favore di Facebook

Quante volte all’utente medio, nell’interfacciarsi con il mondo digitale attraverso uno smartphone o qualsiasi altro dispositivo, sarà capitato di imbattersi in un avviso di consenso all’utilizzo dei dati personali? E quanto volte si è risposto ‘sì’, senza la minima preoccupazione, perché l’interesse in quel momento è solamente (e giustamente) utilizzare il servizio offerto dall’applicazione o dal sito web in questione?

Con l’espansione dell’industria digitale e del web, sono oramai almeno dieci anni che ci troviamo di fronte a simili messaggi. E sono almeno dieci anni che acconsentiamo, consapevolmente o meno, e che ‘carichiamo’ le nostre informazioni personali sul web. Senza considerare poi, che l’autorizzazione al trattamento dei dati personali è richiesta anche in molti altri campi, non solo in quello digitale. Quindi è un ‘nullaosta’ che siamo abituati a dare da sempre, anche da prima del boom del cosiddetto web 2.0.

Il fatto che le nostre informazioni siano costantemente registrate da diverse aziende e riutilizzate per scopi commerciali o altro, non è dunque una novità. Per questo, il ciclone creatosi attorno a Facebook, messo alle corde dalla stampa per non essere attento alla ‘privacy’ dei propri utenti dopo il caso Cambridge Analytica, ha quasi del paradossale.

La Cambridge Analytica è una società di consulenza che raccoglie e analizza i dati degli utenti, per creare dei profili psicografici con lo scopo di fare campagne commerciali mirate.
Quello che è accaduto, è che il proprietario di un’app su Facebook, Aleksandr Kogan – che aveva raccolto regolarmente i dati di 50 milioni di persone dal social network – ha condiviso questi dati con una società terza, appunto la Cambridge Analytica, violando quindi i termini d’uso di Facebook (che vieta alle applicazioni di cedere ad altre società i proprio dati). E quella società terza li ha accettati, non rispettando il modello di business di Facebook (che non cede i suoi dati gratuitamente alle aziende), per utilizzarli presumibilmente in modo ‘non etico’, a scopi elettorali.

La società Cambridige Analytica è stata quindi ‘bannata’ da Facebook dopo l’uscita degli articoli sul Guardian e New York Times, che hanno incolpato Zuckerberg di non aver supervisionato tutti i movimenti che hanno portato Cambridge Analytica a raccogliere i dati degli utenti dall’app di Aleksandr Kogan. E di non aver nemmeno capito che Cambridge Analytica ne avrebbe fatto un uso non etico per influenzare la campagna elettorale.

Quindi, in pratica Facebook – essendo accusato di non aver fatto da garante dei dati degli utenti originariamente raccolti – è incolpato di aver permesso il passaggio dei dati dall’app di Kogan a Cambridge Analytica. Al di là della pronta assunzione di responsabilità di Zuckerberg (i cui motivi possono essere tanti), è una tesi che ha evidentemente un che di assurdo. Ognuno è responsabile dei propri comportamenti: un ferramenta non può essere accusato se un folle compra nel suo negozio un martello per commettere un omicidio.

La piattaforma di Mark Zuckerberg è diventata così il capro espiatorio di tutti i mali sociali e delle insidie del web. Ma, in realtà, Zuckerberg non è né un poliziotto né un magistrato: non è compito di Facebook proteggere i dati degli utenti da usi impropri da parte di terzi. Ovviamente una garanzia sui dati personali c’è, ma si ferma alla sicurezza dei sistemi di Facebook: se un hacker ne ‘bucasse’ i sistemi per appropriarsi dei dati degli iscritti, allora sì ci sarebbe una responsabilità oggettiva. Ma non è questo il caso.

Infatti, forse non molti sono a conoscenza del fatto che l’attività dichiarata di Facebook è proprio quella di raccogliere e vendere i dati degli utenti, nei termini e modalità previste dalla legge, agli investitori, che attraverso inserzionisti comprano poi degli spazi pubblicitari sul social network per fare campagne mirate e vendere i propri prodotti o servizi.

In cambio, cosa dà Facebook agli utenti? Una piattaforma gratuita per rimanere in contatto con i propri amici e per lo svago personale.

Queste sono le condizioni di utilizzo che ogni utente ha accettato consapevolmente o meno prima di iscriversi al social network. E questa è la modalità con la quale guadagnano numerose altre aziende, compresa Google.

Quindi, i dati personali non sono solo il business di Facebook. E non è solo tramite Facebook che lasciamo tracce di nostre informazioni personali sul web, che possono essere potenzialmente usate per scopi impropri. Come avrebbe fatto Cambridge Analytica, anche se ancora non esistono prove certe.

Ma in molti hanno erroneamente scambiato Zuckerberg per il Tim Cook della situazione, e si aspettavano forse che Facebook tutelasse maggiormente la privacy dei propri utenti nel caso di Cambridge Analytica.
Facebook avrebbe potuto farlo, certo, ma secondo il proprio modello di business (ben diverso da quello di Apple, che è un’industria che vende beni al consumatore finale, non informazioni ai pubblicitari) non è tenuto a farlo.
E d’altronde non è stato violato alcun sistema né sfruttata alcuna ‘falla’ per accedere ai dati raccolti dal social network: il creatore dell’app che poi ha passato i dati degli utenti a Cambridge Analytica (violando in questo caso le condizioni d’uso di Facebook), li aveva raccolti in modo del tutto regolare.

Quindi, alla gogna andrebbe semmai messo il creatore dell’applicazione. Ma questo oscuro sviluppatore non ha certo l’esposizione mediatica (e azionaria: ricordiamo che Facebook, per questo scherzo, in Borsa ha perso 80 miliardi di dollari) del maggiore social network al mondo.

C’è insomma, a nostro avviso, nella questione Cambridge Analytica poca razionalità e molta isteria.
Il problema sul quale in realtà porta a riflettere l’articolo inchiesta del Guardian, non è tanto il fatto che Facebook non riesca a controllare dove viaggino questi dati e l’utilizzo che se ne fa. Ma piuttosto il fatto che, alla radice, sembra non esistere alcuna restrizione alla quantità dei dati personali che si possono raccogliere, a causa di legislazioni sulla privacy forse un po’ troppo permissive.
Per questo, non ci dovrebbe essere molto da meravigliarsi se qualcuno riesce ad accedere a queste informazioni e utilizzarle per i propri interessi.

 
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