Social e censura, lasciare il campo o resistere?

Di Antonietta Gianola

L’autrice dell’articolo, Antonietta Gianola, lavora attualmente per il Gruppo Multiradio nella redazione locale di Radio Bruno, emittente radiofonica con sede a Carpi (Mo) e collabora con la testata Primato Nazionale. Giornalista professionista dal 1992 ha lavorato per il gruppo Rizzoli/Hachette, Gruppo Italia Oggi e Giorgio Mondadori. 

 

Dopo la chiusura di numerosi profili tra cui quello di Donald Trump c’è aria di censura. La volontà di chiudere le pagine degli utenti considerati pericolosi viene confermata, del resto, in un video intercettato da James O’Keefe con Mister Twitter che dichiara: «Adesso siamo focalizzati su un account [quello di Trump, ndr] ma questa faccenda diventerà molto più grossa e durerà molto tempo».

Gli utenti sanno che non esiste solo Facebook o Twitter: il mercato mette a disposizione una ricca varietà di social media: Facebook o Signal? Twitter o Parler? Google o Brave? Un bel dilemma! Intanto con la decisione di censurare il presidente degli Stati Uniti, Telegram, alternativo a Whatsapp, ha guadagnato in poche ore ben 25 milioni di iscrizioni, mentre i colossi di Big Tech della Silicon Valley monetizzavano una perdita secca di più di 50 miliardi di dollari. Se con un click si possono oscurare e chiudere siti e app considerati pericolosi, come mai non si è proceduto anche a censurare la pedopornografia on-line?

Quanto sono importanti i social?

Il rapporto Agcom sul consumo di informazione in Italia mette in luce importanti evidenze: in primo luogo che l’80% della popolazione italiana accede ai mezzi di comunicazione regolarmente (tutti i giorni) mentre solo il 5% non si informa affatto. Social network e motori di ricerca, vengono utilizzati dal 54,5% della popolazione a fronte dei quotidiani consultati tutti i giorni dal 17,1% delle persone. Il rapporto mette in guardia sull’attendibilità delle notizie circolanti sul web invitando a fidarsi solo dei professionisti dell’informazione. Un invito che è caduto nel vuoto negli Usa: se si fossero fidati delle news divulgate dall’informazione mainstream gli americani avrebbero snobbato Trump nel 2016 e anche a novembre 2020, visto che è stato dipinto come un rozzo e pericoloso razzista .

La crisi dell’informazione

L’editoria versa in coma profondo: www.affaritaliani.it rileva che dal 2016 al marzo 2020 le copie giornaliere cartacee vendute dai principali editori si sono quasi dimezzate, passando da 2,2 a 1,2 milioni di unità. Va meglio per la televisione che con il Covid ha visto schizzare lo share. Il pubblico ipnotizzato dai numeri sui contagi e dal numero dei decessi snocciolati nell’appuntamento delle ore 18, dal parere di medici, virologi, opinionisti, nella Fase 1, ha trascorso fino a 7 ore al giorno davanti lo schermo. Nel primo lockdown la quota di consumo d’informazione è passata dal 29% al 45% con picchi impressionanti per i Tg regionali. Dopo oltre 10 mesi di consumo bulimico di notizie a senso unico sul Coronavirus, la Rai nella fascia oraria 20.30 – 22.30 raccoglie il 36,67% e Mediaset il 34,87% il rimanente 21, 67% le altre reti.

Per trovare un’alternativa alla narrazione occorre navigare

Guardiamo i numeri: Facebook ha circa 2,7 miliardi di utenti nel mondo, di cui circa 29 milioni in Italia, YouTube 2 miliardi, Instagram 1 miliardo, Twitter (vetrina della classe dirigente) circa 330 milioni, Tik Tok quasi 2 miliardi, Parler 10 milioni, Tumble 90 milioni (nel mondo).  Insieme a tanta fuffa vengono fatte circolare anche informazioni che sui tradizionali mezzi non trovano spazio e propongono nuove prospettive ai problemi delle persone  La questione, per qualcuno, è che nel web circolano anche notizie che possono cambiare la percezione della gente: un rischio che George Soros aveva sollevato durante un incontro a Davos rimproverando Mark Zuckerberg, frontman di Facebook, di aver creato un potentissimo strumento di diffusione della cosiddetta contro informazione.

Ma torniamo al nostro amletico dilemma: restare o lasciare? Gli inviti ad abbandonare per sistemarsi in spazi più comodi e privi di censura assomigliano piuttosto a una strategia per isolare gli insubordinati e renderli innocui. Ragioniamo: meglio stare su un social frequentato da quasi tre miliardi di persone con l’1% di probabilità di far arrivare il nostro messaggio o stare in uno più tranquillo con 10 milioni di iscritti con le stesse probabilità di successo? In Italia con Facebook si passa da una platea di 300 mila a 30 persone. Il proselitismo è completamente neutralizzato.

Insomma il gioco non vale la candela: blocchi, ban e minacce fortificano il carattere. Se in passato, in altri contesti tutti avessero rinunciato, come stanno invitando a fare per scappare e isolarsi in piccoli gruppi, sarebbe stato come dire: non riusciamo a espugnare Gerusalemme ci ritiriamo, lasciamo agli altri la battaglia.

 

Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista dell’autore e non riflettono necessariamente quello di Epoch Times.

 
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