Prodotti cinesi fabbricati da prigionieri-schiavi

Nella pubblicità sul sito italiano di giocattoli My Doll, graziose bambine bionde giocano con delle bambole dal viso roseo e dal sorriso innocente. Belle immagini che nascondono le disumane condizioni in cui vengono fabbricati questi giocattoli.

Secondo una relazione pubblicata di recente dall’Organizzazione internazionale di indagine sulla persecuzione del Falun Gong, i giocattoli My Doll sono stati fabbricati dalle prigioniere del campo di lavoro forzato femminile di Qingsong, a Shanghai, all’inizio degli anni 2000. Tra le detenute in quel campo, c’erano prigioniere di coscienza praticanti del Falun Gong, una millenaria disciplina spirituale pacifica, che comprende esercizi e meditazione, e che subisce una violenta repressione da parte della dittatura comunista cinese dal 1999.

Nel documento è spiegato come nei centri di detenzione il regime cinese obblighi i prigionieri a produrre i beni di consumo destinati al mercato cinese ed estero con torture di ogni genere. A oggi, non è confermato che i giocattoli My Doll siano fabbricati ancora nelle condizioni descritte nella relazione. Epoch Times ha chiesto chiarimenti all’azienda senza ottenere risposta.

È stato l’ex dittatore comunista cinese Jiang Zemin a iniziare la campagna di eliminazione dal Paese del Falun Gong, rinchiudendo centinaia di migliaia di praticanti nei campi di lavoro forzato, nei centri di detenzione e nelle prigioni. L’Organizzazione ha raccolto a questo proposito la testimonianza di una praticante, Li Ying, condannata a due anni di lavori forzati nel campo di Qingsong a Shanghai. La donna, condannata nel 2001, ha dichiarato che dal giugno 2002 al maggio 2003, il terzo reparto del campo in cui si trovava aveva il compito di cucire i vestiti delle bambole e di imballarle. Le prigioniere lavoravano dalle 7 alle 23, tutti i giorni: «La produzione era calcolata su una base di 10 ore di lavoro, ma la maggior parte delle detenute non riusciva a rispettarla. Le bambole venivano impilate per terra nel campo. Alcune per il caldo ammuffivano e, una volta vestite, nessuno si accorgeva di quanto fossero sporche all’interno».

Nel 2013, il regime cinese aveva annunciato la chiusura dei campi di lavoro forzato e l’abolizione del sistema di «rieducazione col lavoro», usato per punire i dissidenti già dagli anni ’50. Ma, come rivelato da Amnesty International nel dicembre 2013, nella maggior parte dei casi i cambiamenti sono stati superficiali: i penitenziari hanno cambiato le insegne esterne, ma all’interno gli abusi e le violenze continuavano sempre. In alcuni casi, i detenuti sono stati semplicemente trasferiti in un altro campo o detenuti in altro modo arbitrariamente.

Wang Zhiyuan, portavoce dell’Organizzazione, spiega che questo continua ancora oggi: «molta gente viene semplicemente messa in prigione». Nel corso degli anni, l’Ong ha raccolto numerose informazioni sui praticanti del Falun Gong imprigionati e costretti a lavorare: «Le parole [‘rieducare col lavoro’, ndr] sono state eliminate, ma non c’è stato alcun reale cambiamento».

UN QUADRO COMPLETO

Il rapporto comprende informazioni dettagliate sui campi di lavoro e le prigioni, in cui i prigionieri di coscienza lavorano in stato di schiavitù. Ma anche sulle aziende, cinesi e straniere, associate alle strutture carcerarie: foto e immagini dei prodotti che i detenuti sono costretti a fabbricare, testimonianze dirette di ex detenuti sulle condizioni di lavoro, e immagini di camion fermi davanti alle prigioni e carichi di merci pronte per la spedizione.

Il rapporto fa inoltre un quadro completo della portata economica derivante dal lavoro forzato in Cina, elencando oltre cento prodotti: dagli articoli per la casa, ai cosmetici, ai giocattoli. Articoli venduti negli Stati Uniti, in Australia, Giappone, Corea del Sud, Russia, Germania, Canada e altri Paesi. Oltre ai praticanti del Falun Gong, tra i detenuti ci sono anche militanti per i diritti dell’uomo e altri dissidenti.

Wang Zhiyuan fa presente che, anche se i casi di abusi documentati nel rapporto sono anteriori all’annuncio dell’abolizione del 2013, altri penitenziari continuano a sfruttare la schiavizzazione dei prigionieri di coscienza. Ma il documento non precisa quali imprese siano implicate.

COINVOLTI MARCHI OCCIDENTALI

L’Organizzazione internazionale di indagine sulla persecuzione del Falun Gong, ha spiegato inoltre come aziende occidentali possano involontariamente partecipare al mercato del lavoro di schiavi in Cina. La Xinjiang Tianshan Wool Tex Stock, ad esempio, è un’impresa specializzata nella produzione di capi in lana e cachemire e, stando al rapporto, ha prodotto maglioni per numerose marche internazionali, come Banana Republic e Neiman Marcus. Non è noto se Tianshan abbia tuttora rapporti con questi marchi, benché dal sito dell’azienda risultino esportazioni in numerosi Paesi, tra cui Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Canada.

Dal 2000 al 2002, oltre 50 praticanti del Falun Gong detenuti nel campo di lavoro di Changji, sono stati costretti a confezionare maglioni per Tianshan Wool Tex. Lavoravano in piedi in media oltre venti ore al giorno con una breve pausa. Se si addormentavano, le guardie li folgoravano con manganelli elettrici, oppure ordinavano ad altri detenuti di picchiarli con mattoni o bastoni. I prigionieri che non riuscivano a produrre la quantità stabilita venivano ammanettati, spogliati e sottoposti a scariche elettriche sulle parti sensibili del corpo.

Nel rapporto si legge che «erano particolarmente crudeli nel torturare i praticanti del Falun Gong». Quelli assegnati al sesto reparto, erano costretti a fare un lavoro manuale molto difficile di giorno e a lavorare a maglia tutta la notte. Se alcuni si addormentavano, le guardie li pungevano con lunghi aghi o con forbici. È stato inoltre riportato che Tianshan Wool Tex pretendeva dai prigionieri il pagamento dei capi danneggiati e, per chi non poteva pagare, la punizione era il prolungamento della pena.

A causa dello sfinimento, della privazione del sonno, della malnutrizione e della mancanza di cure mediche, numerosi detenuti si ammalavano, ma venivano costretti ugualmente a lavorare. Al momento della pubblicazione di questo articolo, Banana Republic e Neiman Marcus non hanno fornito risposte sulle loro relazioni con Tianshan Wool Tex e i canali di approvvigionamento in Cina.

CONDIZIONI ESTREME

La tortura nei campi di lavoro è ordinaria amministrazione in tutta la Cina, e raramente i detenuti hanno protezioni contro le sostanze dannose con cui sono costretti a lavorare. Nel 2010, nel campo femminile di Chongqing, le detenute dovevano incartare caramelle per l’azienda Yaxuan, se una praticante del Falun Gong non raggiungeva la quantità stabilita, veniva costretta a stare in piedi o seduta dritta per due ore tutte le notti. Nel campo femminile di Yunnan, le detenute erano costrette a lucidare e incollare pietre preziose: per pulirle usavano l’acqua di calce, sostanza che fa gonfiare le mani, fa screpolare la pelle e la infiamma. Inoltre, dovendo lavorare per lunghi periodi con un’illuminazione fluorescente, la vista si indeboliva e gli occhi diventavano sensibili alla luce.

LE PRIGIONI

L’Organizzazione ribadisce che i prigionieri cinesi sono ancora costretti a lavorare. Lo dichiara addirittura apertamente, sul proprio sito, la Hangzhou Z-shine industrial Co, importante azienda di abbigliamento che esporta in tutto il mondo e utilizza oltre 40 mila detenuti in 38 prigioni.
In una pubblicità destinata agli investitori, questa società dice chiaramente che si serve del lavoro di prigionieri, rivolgendosi a imprese che non riescono a evadere i propri ordini, con un lessico commerciale di tutto rispetto: «possono lavorare con fabbriche di confezioni del sistema penitenziario e affidarci ordini importanti. Saremo in grado di completare gli ordinativi con spese di produzione ridotte, prodotti di alta qualità e con alta efficienza!».

 

 

Articolo in inglese: New Report Reveals Breadth of Chinese Regime’s Prison Slave Labor Economy

Traduzione di Francesca Saba

 
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