Perché Trump ha vinto e cosa cambierà

Ha vinto Trump. È il segno che i movimenti anti-establishment hanno una forte presa persino in America. Ed è il segno che al ‘già visto’, gli americani preferiscono l’imprevedibile.

«Hillary ha lavorato molto a lungo e molto duramente. Abbiamo nei suoi confronti un grande debito di gratitudine». E «giuro a ogni cittadino della nostra terra che sarò un presidente per tutti gli americani. Gli uomini e le donne dimenticate, nel nostro Paese, non saranno mai più dimenticati».

Quello di Donald Trump è un discorso da presidente normale, e proprio per questo può sorprendere che esca dalla sua bocca. Ma chi ha osservato, al di qua dell’Atlantico, le differenze tra Tsipras durante la campagna elettorale e Tsipras al governo, o anche la differenza tra i toni iniziali del Movimento 5 Stelle e quelli odierni più sobri, sa bene che i personaggi più rumorosi molto spesso si ammorbidiscono, quando assumono una posizione di responsabilità.

«Costruiremo aeroporti, scuole, ospedali, ricostruiremo le nostre infrastrutture – ha continuato Trump – E metteremo a lavoro milioni di persone del nostro Paese, nella ricostruzione».

La vittoria di Trump è la vittoria della schiettezza e del nuovo, contro il politically correct e il vecchio. Nonostante le sue sparate obiettivamente spesso fuori luogo, il pubblico americano ha premiato il miliardario in quanto personaggio estraneo a rigide e noiose retoriche, delle quali la Clinton, pur con la sua esperienza in politica e probabilmente proprio a causa di questa, è stata vista come l’emblema. Inoltre Hillary, che ha lavorato come segretario di Stato durante il primo mandato di Obama, e che è moglie dell’ex presidente Bill Clinton, era quanto di più vicino all’establishment si potesse trovare.

Certo, Trump, importante imprenditore e grandissimo finanziatore della politica americana, non è estraneo all’establishment nemmeno lui. Ma, si sa, è l’establishment pubblico quello che attira maggiormente l’avversione del popolo. E Trump appartiene invece a quello privato.

Secondo Milo Yiannopoulos, eccentrico quanto brillante giornalista britannico, fortemente critico di quelli che ritiene gli eccessi del femminismo e del politically correct, la vittoria del miliardario è lo sfogo della frustrazione di un elettorato repubblicano – spesso, ma non sempre, irrazionale – nei confronti di due mandati di Obama e della cultura del politically correct e dell’autocensura. Questo in un Paese in cui la cultura conservatrice cristiana ha un peso notevole, e non intende inchinarsi alla cultura politicamente progressista, e addirittura nemmeno a quello scientifica (in America, infatti, la teoria dell’evoluzione non è considerata un fatto assodato, contrariamente alla situazione in Italia, dove persino la Chiesa vi si è adeguata). Sebbene i toni di Trump non si prestino a essere scambiati per passi del Vangelo, si inseriscono comunque nel contesto di una cultura di destra tipicamente americana, al netto dei suoi eccessi verbali, che se per gli Usa costituiscono una novità, per gli italiani sono quasi simili a quelli di un Berlusconi, di un Salvini o di un Grillo. E tutti e tre, infatti, si sono espressi in modo positivo sul fenomeno Trump.

A votare Trump non sono quindi solo gli ‘ignoranti’ e i disperati, ma anche ceti colti, solitamente conservatori, che pur non apprezzando i suoi toni e interventi, apprezzano per lo meno la sua autenticità – anche Obama del resto aveva consigliato alla Clinton di cercare di apparire più naturale – e il suo programma. Fa nulla, poi, se i suoi interventi sono a volte razzisti o volgari: all’elettorato meno colto piacciono, e quello colto li considera alla stregua di uno scherzo.

A dirla tutta, in realtà, la maggior parte degli americani era insoddisfatta da entrambi i candidati, con gli indici di impopolarità a livelli record. Trump, quindi, è stato considerato il meno peggio. E le preoccupazioni sulla pericolosità di avere una persona così poco equilibrata a capo del Paese più influente al mondo, non sembrano essere state sufficienti a far vincere la Clinton.
Come in molti hanno fatto notare, per certi versi più che una vittoria di Trump, si è trattata di una sconfitta di Hillary, che è stata una scelta forse non delle migliori, da parte dei democratici. Qualche carta in regola ce l’aveva, come la competenza e l’essere donna (cosa che aiuta, ovviamente, ad attirare i voti di donne e progressisti), ma la Clinton è soprattutto un qualcosa di ‘già visto’ e di poco innovativo. Diversa per esempio da Bernie Sanders, forse un candidato un po’ più da intenditori e da ‘premio della critica’, ma maggiormente capace di costituire un’alternativa vera a Trump.

Certo, la Clinton aveva anche i suoi bei piani. Primo fra tutti quello di costruire mezzo miliardo di pannelli solari per superare la dipendenza dai combustibili fossili: praticamente un sogno, probabilmente non meno irrealizzabile di certe idee di Trump, ma che in ogni caso avrebbe portato almeno a un risultato parziale, in una direzione – ormai lo pensano tutti – molto positiva per il pianeta. Trump invece sembra non considerare affatto l’ambiente tra le sue priorità.

In politica estera, salvo un atteggiamento un po’ più da uomo forte di Trump, e quindi più vicino a Putin, tra i due non cambia tantissimo: entrambi sono per il proseguimento dei conflitti in Siria. Trump in realtà ha anche accennato alla fine della tipica strategia americana interventista che porta alla creazione di Stati filo-occidentali, a seguito di rivoluzioni contro i dittatori nei Paesi arabi.

Quanto ai diritti umani, entrambi i candidati non sono ben visti, di solito, nell’ambiente. La Clinton è stata giudicata debole, quando era segretario di Stato, e incapace di mettere i diritti umani sul piatto della bilancia, durante gli incontri diplomatici. Per Trump i diritti umani sono come l’ambiente: non ne parla, probabilmente perché sono temi che poco si adeguano alla sua immagine di uomo virile che risolve i problemi con uno schiocco di dita. Inoltre i suoi interventi sugli immigrati – che pure lo hanno votato – non sono esattamente nella tradizione gandhiana, e quindi sono poco sottoscrivibili da Amnesty.
Nonostante questo, dal suo entourage, assicurano – in una intervista alla redazione cinese di Epoch Times – che proprio perché Trump non si intende di diritti umani, lo staff che lo aiuterà nei suoi compiti avrà grande influenza nel determinare le sue posizioni in materia. E i membri dello staff che si occupano delle comunità asiatiche americane sono fortemente a favore dei diritti umani dei perseguitati in Cina, e addirittura sembrano aver letto almeno in parte l’ultimo lunghissimo rapporto di Gutmann-Matas-Kilgour sul prelievo forzato di organi ai praticanti del Falun Gong, a giudicare da quanto sono ferrati sul tema.

I se e i ma, in ogni caso, sono inutili. L’elezione di Tsipras non ha portato all’uscita della Grecia dall’Ue, la Brexit non ha portato al collasso economico e politico dell’Europa, e molto probabilmente anche Trump non si metterà a sganciare bombe atomiche durante la pausa pranzo. Non resta che vedere, piuttosto, se riuscirà a mantenere le sue promesse, senza dubbio abbastanza coraggiose: raddoppiamento della crescita, creazione di moltissimi posti di lavoro, indipendenza energetica, costruzione di un muro con il Messico (ma almeno quest’ultima promessa, in molti, sperano che non la mantenga).

Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore e non riflettono necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

 
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