Perché regolamentare le Big Tech non serve a nulla

Questa è la seconda parte di una serie. Leggi la prima parte qui.

 

Repubblicani e democratici, in America, concordano sul fatto che le Big Tech sono diventate troppo potenti e necessitano di una riforma. E concorda addirittura Mark Zuckerberg di Facebook.

Secondo la sua testimonianza al Congresso americano nell’ottobre 2020: «In Facebook, crediamo che le società tecnologiche non debbano prendere così tante decisioni, su temi così importanti, da sole. Siamo pronti a collaborare col governo su quale normativa potremmo avere».

Ma queste riforme dovrebbero assumere la forma di una normativa? Nel chiedere a Facebook e al resto del settore tecnologico di essere regolamentato, Zuckerberg prende ispirazione dal padre della normativa antimonopolistica statunitense, Samuel Insull, che più di un secolo fa – fra lo sconcerto di tutti – chiese al governo di regolamentare il suo monopolio dell’energia elettrica a Chicago. 

E sebbene gli altri monopoli dell’energia elettrica statunitensi impallidissero all’idea, non tardarono molto a vederla come assolutamente geniale. Lavorando alla definizione delle regole del settore, a stretto contatto con i propri controllori al governo, i monopoli dei servizi pubblici tenevano fuori i concorrenti, mettevano al sicuro i profitti e consolidavano il loro potere. Senza limiti di concorrenza, le compagnie elettriche divennero più dominanti che mai. In pochi mettevano in dubbio la legittimità dei monopoli dell’energia elettrica, prima che Margaret Thatcher li rompesse nel Regno Unito nel 1990, spianando la strada a tariffe più basse e servizi migliori grazie alla concorrenza.

Se i governi regolamentassero le Big Tech lasciandole per il resto immutate, la soluzione potrebbe essere peggiore del problema. I giganti del web avrebbero il beneplacito del governo e potrebbero più facilmente influenzare l’azione di controllori e legislatori nella definizione di regole che escludano de facto i concorrenti. Attraverso lobby e donazioni, anche in assenza di un regime regolamentato, essi già persuadono politici compiacenti ad emanare norme discriminatorie nei confronti dei nuovi entranti.

E cosa peggiore, i pochi giganti del web manterrebbero la smisurata influenza – cui tengono tanto – sui processi di decisione politica. 

«Abbiamo pubblicato avvisi su oltre 150 milioni di contenuti che sono stati disconosciuti dai nostri verificatori esterni» ha citato con orgoglio Zuckerberg, tra gli altri esempi che ha fornito al Congresso per dimostrare il primato di Facebook nel mantenere il web sicuro per tutti colori i quali necessitano di essere protetti da punti di vista pericolosi. «Inoltre, stiamo bloccando i nuovi annunci politici e giornalistici nell’ultima settimana di campagna, così come tutti gli annunci politici e giornalistici dopo la chiusura delle urne la notte delle elezioni».

Zuckerberg ha dichiarato che solo nella prima metà del 2020, Facebook ha cancellato 250 milioni di contenuti che violavano le sue regole.

Se fosse regolamentata, la possibilità per le Big Tech di controllare ciò che il pubblico può vedere o meno, rimarrebbe inalterata a causa di una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1978, secondo cui le aziende hanno il diritto di assumere qualunque posizione ideologica indipendentemente dai loro interessi commerciali. Nonostante forti dissensi che si sono poi dimostrati profetici, la sentenza 5-4, rovesciando 200 anni di precedenti, ha stabilito che in base al Primo Emendamento le aziende avevano diritto alla stessa libertà di parola delle persone fisiche.

Il giudice della Corte Suprema William Rehnquist, divenuto in seguito giudice capo, aveva messo in guardia contro i pericoli – per la vita politica – di dare alle aziende il diritto di usare il loro potere economico per ottenere benefici non previsti dai loro atti costitutivi. I pareri sfavorevoli di altri giudici hanno stabilito che i governi sono stati ragionevoli nell’«impedire – alle istituzioni a cui è stato permesso di accumulare ricchezze in conseguenza di vantaggi speciali concessi dallo Stato per determinate finalità economiche – di utilizzare tali ricchezze per acquisire un vantaggio illecito nel confronto politico».

Hanno anche criticato la generale minimizzazione del timore che «la voce di parte delle aziende [possa essere, ndr] dominante o anche solo significativa nell’influenzare i referendum».

Profezie a parte, quell’ingiusto vantaggio concesso alle aziende – salvo cambiamenti della Costituzione o inversioni di rotta della Corte Suprema – è ora scolpito nella pietra. Le Big Tech hanno costituzionalmente il diritto di esercitare il deprecabile potere politico dal quale quattro giudici ci avevano messo in guardia e che cinque giudici hanno ritenuto troppo ipotetico per preoccuparsene.

L’unico modo per limitare il potere politico di Big Tech è che le Big Tech – Facebook, Google, Twitter e Co. – diventino Small Tech: che siano costrette a dismettere le loro numerose acquisizioni a danno dei concorrenti, che attraverso la deregolamentazione siano private ​​dei vantaggi concessi dal governo e che siano rese abbastanza piccole da non rappresentare più una minaccia incontrollata nel confronto  politico.

Diritto d’autore

I vantaggi guadagnati illecitamente includono la possibilità di violare il diritto di autore.

Lamenta il cantante Neil Young: «i giganti del web hanno escogitato un modo per sfruttare la grande musica di tutti i tempi, di qualunque autore, senza segnalare il numero di riproduzioni di un artista o pagare un ******* centesimo ai musicisti»

Tali vantaggi comprendono anche la sezione 230 del Communications Decency Act, che esenta il settore tecnologico dalle responsabilità che gravano sugli altri editori, nonché finanziamenti pubblici e agevolazioni fiscali a livelli per altri inaccessibili. 

Ridurre le dimensioni delle Big Tech e deregolamentare le unità che ne risultano, consentirebbe alla concorrenza del libero mercato di imporre la sua disciplina al comparto tecnologico, senza il regolamento governativo patrocinato da Zuckerberg.

Il potere defluirebbe in questo modo dai giganti del web alle persone.

 

Lawrence Solomon è autore, giornalista e direttore esecutivo del Consumer Policy Institute di Toronto, fondato da Jane Jacobs. LawrenceSolomon@nextcity.com @LSolomonTweets

Le posizioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente le vedute di Epoch Times.

Traduzione di Gaetano D’Aloia

 

Articolo in inglese: How to Reform Big Tech

 
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