Gli Usa ‘abbandonano’ l’Icann, Pechino vuole mettere le mani su internet

«È il momento che la Cina comprenda le proprie responsabilità. Se gli Stati Uniti hanno deciso di rinunciare al controllo di internet, si pone la questione di chi raccoglierà lo scettro del comando e di come verrà gestito», questo dichiarava nel novembre 2014 su China Daily Li Yuxiao, ricercatore dell’Accademia cinese del Cyberspazio, «dobbiamo prima di tutto stabilire i nostri obiettivi in relazione al cyberspazio, poi stabilire la strategia e infine adeguare la nostra normativa». 

Questo discorso appariva in risposta alla notizia che girava in quei giorni, secondo cui il governo Usa aveva deciso di cedere l’ultimo controllo detenuto su internet, mettendo fine al contratto fra il ministero del Commercio e l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), l’ente responsabile a livello planetario per l’assegnazione dei domini internet, il primo di ottobre 2016.

Non appena il governo americano ha deciso di rinunciare alla guida dell’Icann, il regime cinese si è subito mosso per colmare il vuoto. Nel corso degli ultimi due anni, ha infatti varato un codice di leggi autoritarie che domina ogni aspetto della Rete, creando (o prendendo il controllo di) enti nazionali e internazionali per imporre questa regolamentazione alle Nazioni Unite, all’apparato giudiziario interno, alle organizzazioni create per interfacciarsi direttamente con le maggiori multinazionali tecnologiche estere e alle altre multinazionali con sede in Cina.

L’Icann è l’organismo che governa la registrazione dei domini e garantisce che a un determinato nome corrisponda un determinato sito internet.

La struttura dell’Onu responsabile per internet, l’Itu (International Telecommunications Union), da tempo lavora per prendere il controllo dell’Icann. E la Cina da tempo lavora per prendere il controllo dell’Itu.

I PREPARATIVI

Nei due anni successivi a quando Li ha pronunciato il suo discorso alla Conferenza Internazionale di internet (che aveva lo slogan ‘Un mondo interconnesso, condiviso e governato da tutti’), il regime cinese ha guadagnato terreno nel controllo globale della Rete. L’ultima Tre Giorni di internet a Wuzhen ha raccolto oltre mille società internet da oltre 100 Paesi.

Li adesso è segretario generale dell’Organizzazione Cinese per la Cyber-sicurezza , presieduta da Fang Binxing (il creatore del Grande Firewall per il controllo e la censura della Rete in Cina), che dietro la facciata della sicurezza, ha lo specifico compito di imporre l’idea che il regime cinese ha dell’applicazione della legge su internet.

La Cina ha poi preso il timone dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, l’organismo dell’Onu che ha come obiettivo il controllo globale di internet (cosa che ha già iniziato ad attuare nei confronti degli Stati Uniti e di diverse società attive in Cina). 

Il regime cinese ha anche iniziato a includere nel proprio Comitato Tecnologico le maggiori multinazionali tecnologiche americane (Microsoft, Intel, Cisco e Ibm) che, secondo il Wall Street Journal, hanno il compito di aiutare le autorità cinesi a varare leggi su questioni quali codici crittografici, gestione di big data e sicurezza informatica, e di individuare quali tecnologie potranno essere considerate «sicure e controllabili».

I requisiti creati dalla dittatura di Pechino prevedono, infatti, che tutte le strutture informatiche e i sistemi chiave debbano essere «sicuri e controllabili» in quanto parte integrante dell’onnicomprensiva Legge sulla Sicurezza Nazionale che copre tutto: dalla politica, al programma militare spaziale, passando per economia, ambiente e tecnologia.

Poco tempo dopo l’approvazione della legge, avvenuta il 1° luglio 2015, la Fondazione per la Tecnologia Informatica e l’Innovazione ha descritto i suddetti requisiti come parte di uno «sforzo strategico inteso a soppiantare le compagnie tecnologiche in Cina e nei mercati di tutto il mondo».

Ma se il regime maschera le sue vere intenzioni dietro una presunta necessità di «cyber-sicurezza», gli dirigenti del Partito Comunista Cinese (Pcc) e gli organi di stampa governativi, sono stati invece molto sinceri a riguardo, fin dalla conferenza mondiale del 2014.

Secondo il quotidiano di regime China Daily «esperti del settore riconoscono come la Cina stia sfruttando l’occasione per imporre le proprie strategie e regole nel mondo, una missione ritenuta significativa e urgente da parte della prima cyber-potenza, con il più alto numero di utenti internet».
 
Nei commenti, Li Keqiang, leader del Pcc, espresse la volontà del partito di creare un codice comune di regole universali per internet, e Shen Yi, professore associato della Fudan University specializzato in cyber-sicurezza, sottolineò ancora più esplicitamente la possibilità concreta, per la Cina, di stabilire una serie di principi generali del cyber-spazio che le permettano di influenzare il mondo.  

UNA MOSSA CONTROVERSA

Diversi esponenti di governo statunitensi, ma anche organizzazioni ed esperti privati, hanno messo in guardia sui pericoli derivanti dalla strategia di progressivo abbandono dell’Icann, nella preoccupazione, come appunto sta accadendo con la Cina, che il controllo passi nelle mani di un potere straniero autoritario.

L’8 giugno, i repubblicani Ted Cruz (senatore del Texas) e Sean Duffy (parlamentare del Wisconsin) hanno proposto un disegno di legge, il Protecting Internet Freedom Act, per assicurarsi che gli Stati Uniti rimangano i soli proprietari dei domini strategici .com e .mil.

Dalla pagina web di Ted Cruz: «Paesi come Russia, Cina e Iran potrebbero censurare i discorsi su internet, persino negli Stati Uniti, semplicemente impedendo l’accesso a siti indesiderati».  

Secondo Chris Mattmann, che ha contribuito a creare alcune delle tecnologie essenziali per la Rete, queste preoccupazioni sono realistiche, poiché uno dei ruoli dell’Icann è proprio quello di gestire e coordinare il Dns (il sistema che assegna il nome ai domini web).
Se l’Icann non fosse più sotto la tutela degli Usa, il processo che determina quali siti vengano mostrati quando si esegue una ricerca online non ricadrebbe sotto la giurisdizione del Dipartimento per il Commercio statunitense, ma potrebbe essere manipolato da altri poteri con fini di censura o per portare attacchi informatici.

Mattmann è stato interpellato dall’Autorità per l’assegnazione dei numeri internet, una branca dell’Icann, per fornire assistenza nello sviluppo dei sistemi e-mai, e ha preso parte inoltre alla realizzazione di numerosi applicativi per la piattaforma Apache. Oggi collabora invece con il Jet Propulsion Laboratory della Nasa. 

Riferendosi all’Icann: «Penso che un controllo accurato sia necessario. Anche se la Rete è per definizione illimitata e spontanea, tende a collassare su se stessa quando manca completamente di un’autorità centrale».

Dello stesso avviso è Philip Zimmerman, creatore dello standard crittografico PCP, nonché capo della sezione scientifica e cofondatore della Silent Circle, una ditta specializzata nella sicurezza delle comunicazioni.

Per Zimmermann «gli Stati Uniti devono mantenere il controllo su internet e non rischiare di delegarlo a un organo internazionale che si espone all’influenza di stati membri oppressivi. Il fine della rete è dar voce ai deboli. Se la Cina controlla i propri domini all’interno del Paese, diventa semplice sopprimere ogni opposizione».

Per Barney Warf, un professore di geografia presso l’Università del Kansas che ha studiato il rapporto tra la libertà globale su internet e il governo: «La Cina rappresenta un regime brutale e fascista che abusa della repressione dei diritti umani» e l’ipotesi che il Pcc detti legge nella Rete è spaventosa. Uno dei vantaggi di internet infatti, anche se ufficiosamente sotto la vigilanza dagli Stati Uniti, era la permeabilità e morbidezza di tale gestione, che permetteva il fiorire dell’innovazione. La mancanza di un’autorità stringente lasciava facoltà agli utenti di sperimentare e commettere errori, cosicché «il motivo per cui internet ha prosperato è l’assenza di un potere centrale».

LEGGI PER INTERNET       

Il 23 ottobre 2014 l’Itu, l’organo preposto a sostituire l’Icann, ha eletto Houlin Zhao come segretario generale. Per Zhao il concetto di censura è soggettivo e, secondo New American, ha risposto evasivamente alle domande sul trattamento riservato ai dissidenti e sulle idee in contrasto con il regime; del resto «alcune forme di censura potrebbero non essere così incomprensibili ad altre nazioni».

Già nel 2012 l’Itu aveva attirato l’attenzione internazionale su di sé tenendo una conferenza a porte chiuse per riscrivere le regole che governano la rete globale. L’incontro aveva ricevuto aspre critiche da parte delle comunità di specialisti del settore e nei siti web. Tra le altre notizie, Cnet.com ha rivelato un documento della Commissione, dove veniva ipotizzata l’introduzione di una tassa globale per i fornitori di servizi online come Google, Facebook, Apple e Netflix.

Ancora, il Centro per la democrazia e tecnologia ha denunciato l’accettazione da parte dell’Itu di una proposta che prevede «la facoltà per governi e compagnie di analizzare il traffico internet degli utenti, incluse e-mail, transazioni bancarie e chiamate» senza che vengano garantite adeguate misure di tutela per la privacy.

E mentre cresce l’influenza del Pcc all’interno dell’Itu, il partito comincia anche fare pressione per imporre la propria visione sia in Cina che all’esterno. 
Nel luglio 2015 veniva appunto promulgata la legge sulla Sicurezza Nazionale che prevede dei requisiti affinché certe tecnologie rimangano «sicure e controllabili».
Il sito web TechDirt, che tratta di notizie tecnologiche, fa notare come la legge rimanga piuttosto vaga riguardo all’applicazione verso le società straniere, tuttavia questo può ricondursi alla precedente e controversa richiesta del Partito di installare backdoor nei loro prodotti tecnologici.

Sempre a luglio il Pcc ha introdotto la legge sulla cyber-sicurezza. Reuters riportava come la legge imponga agli operatori di rete di «accettare la supervisione del governo e del pubblico» e che vengano registrati tutti i dati personali o «commercialmente rilevanti» dei cittadini all’interno della nazione.
La legge, andando a colpire anche le compagnie straniere, è ostracizzata negli Stati Uniti e in Europa, e desta grave preoccupazione tra i governi e le associazioni per i diritti civili, poiché il Pcc può interpretarla a proprio piacimento, arrogandosi il diritto di accedere a informazioni private o di bloccarne la diffusione.

Nel dicembre dello stesso anno è stata varata la legge Antiterrorismo, in forza della quale il governo cinese può decodificare informazioni per prevenire azioni criminali e monitorare sistemi informatici con la scusa di impedire la diffusione di «fanatismi».

Xia Yiyang, direttore di ricerca e progettazione presso la Fondazione per la legge sui Diritti Umani, spiega come i termini «terrorismo» e «fanatismo» siano in realtà etichette politiche date dal Partito ai dissidenti per giustificarne i maltrattamenti (in particolare gli uiguri islamici dello Xinjiang e del Turkestan occidentale): «È facile assegnare un nome a un gruppo. Chiamano separatisti i tibetani, che così vengono bollati. E infatti, quando in Cina si parla di “separatisti”, si pensa ai tibetani. E quando si parla di “attacchi terroristici interni”, si pensa agli uiguri. Prima erano nomi, ora sono definizioni». 

Ma la lista è ancora lunga: nel febbraio 2016 il Pcc ha promosso una serie di regolamentazioni per la pubblicazione di contenuti online.
Un mese dopo la sua azione si è concentrata invece sull’assegnazione dei nomi per i domini, attraverso appalti statali che limitano l’iniziativa delle compagnie straniere. Attualmente è in progetto di introdurre una legislazione sulla cifratura dei dati.

L’ASSOCIAZIONE CINESE PER LA CYBER-SICUREZZA

Il 25 marzo 2016 ha visto la nascita dell’Associazione cinese per la sicurezza informatica: sulla carta si tratta di un’organizzazione no-profit, ma fonti del Centro per gli Studi strategici e internazionali, sottolineano come questa risponda direttamente al Comitato per la sicurezza della Rete e per l’informazione, presieduto dal leader del Pcc Xi Jinping, e principale artefice delle politiche e delle leggi riguardanti la sicurezza su internet.

Il Partito sta accelerando nello sviluppo delle istituzioni e dei meccanismi necessari a rafforzare la propria egemonia virtuale. Non soltanto per quanto concerne i sistemi informativi e il supporto tecnologico, ma anche estendendo la capacità di monitorare l’opinione pubblica per meglio indirizzare la propaganda o proteggendo gli interessi fondamentali delle compagnie informatiche cinesi, o della stessa Cina, all’interno della globalizzazione.

Gli «interessi fondamentali», secondo Xia della Fondazione per la legge sui Diritti umani, coincidono per il Pcc con il mantenimento del potere nelle salde mani del partito e le azioni esterne hanno lo scopo di ribadire lo stesso concetto agli occhi del mondo: «La politica non ha importanza, ciò che conta è il governo del Pcc. Questa è la sola ragione della politica».

Secondo il Csis, la nuova Associazione Cinese per la Cyber-sicurezza permetterà al Pcc, per la prima di volta, di indirizzare a un livello superiore la diplomazia informatica internazionale e di influenzare l’industria, la comunità scientifica, e le associazioni di ricerca, ovvero i principali protagonisti dell’ecosistema governativo della Rete.

Il segretario generale dell’Associazione, Li Yuxiao, è stato singolarmente sincero in merito: poiché la China ha il maggior numero di utenti online «dovrebbe avere il diritto di dettare le regole del cyberspazio. E, anzi, questo è solo l’inizio».

 

Articolo in inglese: China Could Control the Global Internet After Oct. 1

 

 
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