Come Pechino influenza la stampa Usa, tra viaggi organizzati e cene eleganti

Di Eva Fu e Cathy He

A partire dal 2009, un gruppo legato a Pechino ha organizzato viaggi in Cina per oltre 120 giornalisti di quasi 50 testate americane, come parte della più ampia campagna per rafforzare l’influenza del Partito Comunista Cinese negli Stati Uniti.

La China-United States Exchange Foundation (Cusef) è un gruppo no profit con sede a Hong Kong fondato dal miliardario Tung Chee-hwa, un funzionario del regime cinese. In passato Tung è stato il Capo dell’esecutivo di Hong Kong e attualmente è vicepresidente dell’organo consultivo del Pcc, la Conferenza Consultiva Politica del Popolo.

Negli Stati Uniti il Cusef è registrato come ‘foreign principal’ ai sensi del Foreign Agents Registration Act (Fara), ed è perciò tenuto a fornire alle autorità accurati resoconti periodici sulle proprie attività nel Paese.

Gli archivi del Fara, quindi, mostrano come il gruppo abbia cercato di influenzare la stampa e di plasmare l’opinione pubblica negli Stati Uniti.
Oltre ai viaggi per i giornalisti, infatti, il gruppo ha organizzato viaggi per gli attuali e gli ex parlamentari, ha corteggiato i dirigenti delle principali testate giornalistiche con cene esclusive, e ha coltivato negli Stati Uniti un gruppo di «sostenitori di terze parti» che producono articoli positivi sulla Cina da pubblicare nei media occidentali.

Le attività del gruppo offrono uno spaccato degli sforzi tentacolari del Pcc per influenzare la percezione pubblica e l’opinione delle élite nelle democrazie occidentali, allo scopo di persuadere i governi ad adottare politiche in sintonia con gli obiettivi di Pechino. Lo scopo di questa campagna è di «rendere gli americani ricettivi alla forma di autoritarismo di Pechino», secondo quanto affermato lo scorso ottobre dal segretario di Stato Mike Pompeo.

Rivolgendosi alle testate giornalistiche straniere, il regime ambisce a limitare la copertura mediatica negativa nei confronti di Pechino, e incoraggiare quella favorevole. Questo è quanto affermato in un’intervista e-mail da Grant Newsham, un senior fellow del think tank Center for Security Policy di Washington.

Secondo Newsham, le storie positive – del tipo «quanti grattacieli luccicanti ci sono a Shanghai e Shenzhen, come la Rpc è riuscita a sconfiggere il Covid-19, e come l’economia cinese si sia ripresa bene» – plasmano «sia il pensiero pubblico che quello ‘ufficiale’ negli Stati Uniti e alla fine plasmano la politica ufficiale (sia economica che finanziaria)» verso la Cina.

Gli obiettivi della campagna

Il resoconto fornito nel 2011 al Fara da Blj Global, una società di pubbliche relazioni ingaggiata dal Cusef, delineava un piano per influenzare positivamente il dibattito pubblico sulle relazioni Usa-Cina, enfatizzando l’idea della «Cina come partner indispensabile per gli Stati Uniti».

La Blj Global ha riassunto gli obiettivi del suo lavoro per il Cusef in questi termini: «Sviluppare e promuovere una comunità di esperti che condividono le stesse idee sulle relazioni Usa-Cina»; «Costruire relazioni con personaggi mediatici influenti che possano servire come voci positive nei dibattiti sulle relazioni Usa-Cina» e «costruire un messaggio positivo e coeso della collaborazione tra Stati Uniti e Cina e lavorare per diffondere questo messaggio tramite il presidente [Tung, ndr] […] sostenitori e organizzazioni di terze parti, e i media».

Il suo obiettivo aziendale per il 2010 consisteva nell’inserire una media di tre articoli a settimana contenenti dichiarazioni a sostegno della Cina in varie testate giornalistiche americane. Il resoconto afferma che nel 2009 l’azienda ha «agevolato o direttamente influenzato» la pubblicazione di 26 articoli di opinione e l’inserimento di citazioni all’interno di 103 articoli.

Il resoconto specificava anche che alcuni articoli di opinione positivi sono stati scritti dai «sostenitori terzi» del Cusef, da gruppi di esperti, ex politici e figure influenti.

Viaggi per giornalisti

Dal 2009, la Blj ha organizzato viaggi per 128 giornalisti di 48 testate statunitensi, tra cui Washington Post, New York Times, L.A. Times, Vox, Nprs e Nbc, secondo un’analisi dei resoconti consegnati al Fara ai sensi della legge statunitense.

L’azienda, nel resoconto del 2011, ha definito le visite «viaggi di familiarizzazione» destinati a reclutare «giornalisti di alto livello per viaggi in Cina, selezionati in base alla loro autorevolezza e opportunità di realizzare una copertura favorevole».

«Queste visite dovevano essere studiate per offrire uno sguardo fresco e positivo sui risultati ottenuti dalla Cina – continua il resoconto – e per sottolineare quanto sia importante per gli Stati Uniti impegnarsi direttamente con la Cina».

Sempre citando il resoconto consegnato al Fara, nel 2009 due viaggi organizzati per giornalisti di 7 testate hanno portato alla pubblicazione di 28 articoli.

I viaggi in Cina, ha dichiarato Newsham, assomigliano alla «pratica di lunga data del regime cinese di ‘diplomazia delle visite’ e di ospitalità, che funziona così bene con i funzionari governativi e gli uomini d’affari di molti Paesi». Questo approccio «funziona molto bene con persone che hanno solo un’esperienza limitata con la Cina».

Forse i giornalisti ritengono di essere immuni all’influenza del regime, ha continuato Newsham, ma dal suo punto di vista «è difficile crederci».

Alterazione della percezione

Il regime cinese ha definito i viaggi organizzati per i giornalisti stranieri, come quelli finanziati dal Cusef, come programmi importanti attraverso i quali i giornalisti possono capire la «vera Cina».

L’Istituto degli Affari Esteri del Popolo Cinese, un ente controllato dallo Stato che finanzia regolarmente viaggi per i funzionari stranieri, ospita anche i giornalisti nei viaggi sponsorizzati dal Cusef.
L’allora direttore dell’Istituto, Yang Wenchang, in un incontro interno del 2009, ha definito le visite dei giornalisti statunitensi un «ottimo esperimento», sottolineando che tali sforzi dovevano essere portati avanti nel tempo fino a creare un «marchio di fabbrica».

Nel 2020, l’attuale direttore dell’Istituto, Wang Chao, ha scritto nella pubblicazione interna del dipartimento che l’organizzazione si è impegnata sempre più per invitare gruppi di giornalisti stranieri in Cina, in modo che possano «sperimentare in prima persona i progressi della Cina, e usare i media come una finestra per far vedere a più stranieri una vera Cina».

L’associazione giornalistica del Partito, la All-China Journalists Association, gestisce un programma di scambio di giornalisti dal 2010. Un articolo pubblicato nel 2016 da Xinhua.net, agenzia stampa del regime, vantava il fatto che le visite dei giornalisti stranieri organizzate dall’associazione hanno giocato un ruolo chiave nell’espansione della «cerchia di amici» internazionale della Cina.

Citando l’articolo di Xinhua.net, tali viaggi hanno permesso «ai giornalisti che non erano mai stati in Cina e che sono stati profondamente influenzati dalla tendenziosa informazione degli Stati Uniti sulla Cina» di «avere conversazioni approfondite con funzionari cinesi, esperti e controparti dei media sullo sviluppo della Cina, il che aiuta a dissipare gran parte dei malintesi o delle preoccupazioni».

L’articolo citava inoltre le testimonianze di un redattore senior dell’Huffington Post, che avrebbe detto che le visite organizzate dall’associazione gli hanno fatto comprendere «quanto sia ignorante il circolo della stampa statunitense sulla Cina». Mentre un giornalista finanziario vincitore del Pulitzer con il L.A. Times, dopo una visita di 9 giorni in Cina, avrebbe dichiarato di essersi reso conto che la conoscenza che la stampa statunitense ha della Cina «non raggiungerà mai la velocità di sviluppo della Cina».

E ancora, un giornalista di Reuters, identificato come ‘Patrick’, avrebbe dichiarato che la visita in Cina ha cambiato la sua percezione del ruolo dei media cinesi: «Prima di visitare la Cina, pensavo che i media cinesi fossero funzionali alla lotta di classe, ma dopo essere venuto qui, ho scoperto che questa idea rimane ancorata al periodo della Rivoluzione culturale, il che è in qualche modo ridicolo».

Anche in determinati momenti critici, il regime ha fatto ricorso ai viaggi per i giornalisti nel tentativo di ottenere il favore della stampa estera. Dopo due grandi proteste delle minoranze etniche in Tibet e nello Xinjiang contro il dominio del Partito, rispettivamente nel 2008 e nel 2009 (che il Pcc ha bollato come rivolte), l’associazione «ha condannato i media occidentali che hanno inventato notizie alla prima occasione», secondo un articolo pubblicato nel 2011 da Xinhua. E il gruppo «ha prontamente organizzato interviste in loco per i media stranieri […] per creare un’opinione pubblica favorevole sulla gestione degli incidenti».

Cene esclusive

Dal 2009 al 2017, il Cusef ha organizzato una serie di cene e incontri con i rappresentanti di 35 testate giornalistiche, tra cui Time magazine, Wall Street Journal, Forbes, New York Times, AP e Reuters.

Le cene esclusive organizzate da Tung con i dirigenti e gli editori delle principali pubblicazioni americane – di solito a Washington e New York – sono state descritte da Blj nel rapporto Fara del 2011 come «inestimabili per la loro efficacia nell’ottenere il supporto dei leader dell’industria dell’informazione».

«Anche se non può essere quantificata, l’influenza che il signor Tung ha avuto sugli opinionisti di alto livello è servita a influenzare la copertura delle notizie nelle principali testate e a influenzare l’élite», ha concluso Blj.

In qualità di vicepresidente della Conferenza Consultiva Politica del Popolo cinese, Tung presiede un’unità chiave della rete del Fronte Unito del regime. Il lavoro del Fronte Unito, descritto dai leader del Partito come un’ «arma magica», coinvolge gli sforzi di migliaia di gruppi all’interno e all’esterno della Cina che svolgono operazioni di influenza politica, reprimono i movimenti dissidenti, raccolgono informazioni e agevolano il trasferimento di tecnologia alla Cina.

Tung, uomo d’affari di Hong Kong nato a Shanghai, è stato il primo Capo dell’Esecutivo di Hong Kong dopo che la città è passata dal dominio britannico a quello cinese nel 1997. Si è poi dimesso nel 2005 prima di terminare il suo secondo mandato. Durante il suo mandato, ha supervisionato la stesura del controverso disegno di legge anti-sovversione noto come Articolo 23, che ha scatenato le più grandi proteste nella storia della città fino alle grandi proteste pro-democrazia del 2019.

Il miliardario ha costantemente espresso la sua fedeltà al regime cinese, da ultimo a dicembre, esprimendo il suo sostegno alla legge sulla sicurezza nazionale che Pechino ha imposto alla città l’anno scorso. Ha anche affermato che Pechino non avrebbe violato le promesse fatte secondo il modello ‘un Paese, due sistemi’, secondo il quale la città avrebbe mantenuto livelli di autonomia e libertà che non si trovano nel continente.

In un incontro con il leader cinese Xi Jinping del 2017, Xi ha elogiato Tung per «aver dedicato disinteressatamente il proprio tempo, energia, saggezza e risorse alla nazione» e per «aver dato un esempio agli ultimi arrivati».

Cusef e Blj non hanno risposto alle richieste di commento. Ma in una dichiarazione del 2017 al Foreign Policy, il Cusef ha negato qualsiasi collegamento con il regime cinese: «Non miriamo a promuovere o sostenere le politiche di alcun governo».

Il richiamo del denaro cinese

Oltre a incrementare la proprio influenza tramite le relazioni personali, il Pcc esercita un’influenza più diretta sui media occidentali, controllando le loro possibilità di operare in Cina e il loro accesso al pubblico cinese, ha osservato Newsham: «Se si scrive qualcosa di troppo critico nei confronti del Pcc […] si può essere cacciati dal Paese. Quindi ciò porta a un certo grado di autocensura, che inevitabilmente ‘indebolisce’ la copertura mediatica sulla [Cina, ndr], in quanto costringe a resoconti non proprio accurati delle cose».

I corrispondenti stranieri in Cina hanno accusato il regime di usare i visti come «armi» per fare pressione sui media stranieri affinché modifichino i loro articoli. Lo scorso febbraio, il regime ha revocato i visti a tre giornalisti del Wall Street Journal dopo che il giornale aveva rifiutato di scusarsi per aver pubblicato un articolo di opinione intitolato ‘La Cina è il vero malato dell’Asia’.

Per fare un esempio, nel 2013 Bloomberg ha staccato la spina a un’inchiesta investigativa sui legami tra Wang Jianlin, al tempo l’uomo più ricco della Cina, e i principali leader del Pcc, per paura di subire ritorsioni da parte di Pechino: «Di sicuro inviterebbe il Partito Comunista a farci chiudere completamente e a cacciarci dal Paese», ha dichiarato l’allora caporedattore di Bloomberg, Matthew Winkler, in una conferenza telefonica dell’ottobre 2013 ottenuta dalla National Public Radio: «Probabilmente ci farebbero chiudere».

Il successo della campagna

Secondo Newsham, gli sforzi di Pechino per influenzare la stampa americana hanno avuto «un discreto successo».

«Considerate anche quanto tempo ci è voluto per ottenere una copertura mediatica decente del genocidio cinese nello Xinjiang, o una qualsiasi copertura del prelievo forzato di organi dai cinesi da parte del Pcc, le cui vittime sono spesso [praticanti del, ndt] Falun Gong», ha dichiarato Newsham, riferendosi a un gruppo spirituale che è severamente perseguitato in Cina dal 1999. «Dal punto di vista del Pcc, questo è un successo», ha sottolineato il ricercatore.

Oltre a documentare raramente le violazioni dei diritti umani commesse da Pechino, i media statunitensi spesso non rendono adeguatamente conto del ruolo del regime cinese nelle crisi che avvengono all’interno del Paese.

Per esempio, Newsham ha fatto notare che nelle inchieste sul nuovo coronavirus (noto anche come virus del Pcc), «i media mainstream si sono rifiutati di prendere in considerazione la possibilità che il virus sia uscito da un laboratorio cinese. E hanno attaccato simili ipotesi definendole ‘fake news’». Il ricercatore ha sottolineato che solo di recente questa teoria ha ottenuto una certa copertura mediatica, «Ma i media hanno sprecato almeno un anno, e hanno permesso alla Repubblica Popolare Cinese di insabbiare la vicenda».

La copertura della stampa sulla crisi del fentanyl, che uccide decine di migliaia di americani ogni anno, fa molto raramente menzione del fatto che gran parte delle droghe sintetiche provengono dalla Cina, ha aggiunto Newsham. Al contempo, i servizi sull’economia cinese spiegano «molto raramente» che le statistiche economiche e finanziarie ufficiali sono completamente inaffidabili, o che non c’è uno Stato di diritto nel Paese.

Newsham ha infine suggerito che la questione della collaborazione tra la stampa e il regime cinese si riduce «in fin dei conti a una questione di principio»: «Questi giornalisti/dirigenti avrebbero fatto qualcosa di simile con il governo sudafricano dell’era dell’apartheid? Probabilmente no».

 

Articolo in inglese: Beijing-Linked Group Tries to Sway US Media With Reporter Trips, Dinners With Execs

 
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