Pechino contro tutti, tra grandeur futuristica e furti hi-tech

Gli Stati Uniti hanno di recente reso pubblica la lista completa dei prodotti cinesi sui quali verranno applicati i dazi doganali. Nell’elenco figurano più di mille articoli. E la risposta del regime cinese si è fatta attendere solamente dodici ore: Pechino promette dazi su soia, aeroplani e altri prodotti di importazione americana.

Secondo quanto dichiara a Reuters un funzionario dell’ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America, i dazi riguardano i prodotti tecnologici cinesi che traggono benefici dalle politiche industriali del regime cinese, tra cui il programma ‘Made in China 2025’.
Un progetto, quest’ultimo, al quale Pechino dal canto suo si starebbe dedicando con attenzione, perché fondamentale per il progresso tecnologico e quindi per gli interessi del regime. Ma di cosa si tratta esattamente?

Il programma è stato svelato nel 2015 come ‘il piano economico decennale del regime cinese’. Il suo obiettivo è sviluppare dieci industrie manifatturiere tecnologiche nel Paese che si occupino di informatica avanzata; robotica e macchine utensili automatizzate, aeromobili e componenti di aeromobili, trasporto marittimo e attrezzature di ingegneria navale, equipaggiamento ferroviario avanzato, veicoli a nuove fonti di energia, apparecchiature di generazione e trasmissione dell’energia elettrica, macchinari e attrezzature agricole, nuovi materiali e, infine, prodotti farmaceutici e dispositivi medici avanzati.

Provincia di Hebei, Nord della Cina, 31 marzo 2018. (AFP/Getty Images)

Scott Kennedy, del Centro per gli Studi strategici e Internazionali, ha spiegato sul sito web del gruppo di esperti, che il piano del regime cinese si rifà «all’industria 4.0» dei tedeschi, secondo cui il settore manifatturiero può essere aggiornato «applicando gli strumenti della tecnologia dell’informazione alla produzione».

Nell’anno appena trascorso, il Mercator Institute of China Studies (con sede in Germania), ha reso pubblica un’analisi che spiega il fine del progetto Made in China 2025 in termini molto semplici: «L’obiettivo è essenzialmente quello di costruire una struttura economica e delle capacità simili a quelle della Germania e del Giappone: un forte Paese industriale, basato su un’industria manifatturiera robusta e innovativa».

ACQUISIZIONE DI AZIENDE STRANIERE

La Cina vuole quindi evitare la ‘trappola del reddito medio’, modernizzando il settore manifatturiero, e divenendo allo stesso tempo meno dipendente dalle importazioni hi-tech straniere. Ma il regime cinese guarda oltre l’ottenimento della semplice autosufficienza nei settori appena menzionati (l’obiettivo è un’autosufficienza del 70 per cento entro il 2025). Quello a cui realmente punta, è infatti arrivare a competere ed eventualmente persino surclassare le imprese straniere su scala globale.

L’ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America, che ha pubblicato un resoconto a seguito dell’indagine sul furto di proprietà intellettuale da parte della Cina, ha però più volte fatto riferimento al piano Made in China 2025, come riprova dell’esistenza di una strategia del regime cinese volta ad acquisire imprese straniere per rubarne le innovazioni tecnologiche.
E il Mercator Institute ha spiegato il motivo per cui questo progetto costituisca una seria minaccia per le economie occidentali: «La Cina, grazie al capitale governativo e a reti di investitori tutt’altro che trasparenti, persegue una politica industriale ‘in uscita’, al fine di facilitare l’acquisizione dell’hi-tech dai Paesi esteri. Questo mina i principi della leale concorrenza: il sistema economico cinese manovrato dallo Stato, sfrutta l’apertura delle economie in Europa e negli Stati Uniti».

Negli anni passati, il progetto Made in China 2025 ha portato a numerose acquisizioni all’estero: da quando il piano è venuto alla luce infatti, rende noto il Mercator Institute, gli investimenti cinesi nelle imprese straniere specializzate in automazione e digitalizzazione industriale, sono cresciuti a dismisura. La maggior parte di questi investimenti sono stati compiuti nell’ottobre 2016 in società tedesche, come nel caso dell’acquisizione della Broetje Automation (che produce macchinari per il settore aeronautico e aerospaziale), dalla Shanghai Electric. Questa stessa società, all’inizio dell’anno ha inoltre acquisito il 19 per cento di Manz, azienda tedesca specializzata nella produzione di componenti elettronici, moduli solari e batterie agli ioni di litio.

In America, la Commissione intergovernativa sugli investimenti esteri negli Stati Uniti, ha impedito che venissero portate a termine diverse acquisizioni da parte dei cinesi, facendo leva sulle crescenti preoccupazioni relative alla sicurezza nazionale. Lo scorso settembre, la stessa Commissione ha bloccato un accordo tra la Canyon Bridge, società di private equity finanziata dal regime cinese, e la Lattice Semiconductor, società statunitense produttrice di chip.

Tuttavia, alcuni accordi sono stati comunque portati a termine. A gennaio per esempio, la Naura Microelectronics Equipment Co, con sede a Pechino, è riuscita ad acquisire la Akrion Systems, azienda americana produttrice di materiali utilizzati nella fabbricazione di semiconduttori.

Nel 2016, la Beijing E-Town, agenzia delle autorità municipali di Pechino, ha acquisito iML, azienda hi-tech specializzata nella produzione di dispaly a schermo piatto e illuminazione a Led. Questo ha permesso alla Cina di ottenere quella tecnologia necessaria, e di fondamentale importanza, per lo sviluppo di chip destinati ai dispositivi mobili e ai computer in generale.

L’influenza del progetto Made in China 2025 negli accordi commerciali finora portati a termine dalla Cina, è dunque abbastanza evidente. Secondo l’Istituto di Ricerca Economica Chung-Hua di Taiwan, nel 2016 le due maggiori industrie cinesi che hanno potuto godere degli investimenti esteri, hanno accumulato circa 30 miliardi di dollari, e in particolare 26,4 milardi attraverso la tecnologia dell’informazione e del software.

Anche molti fondi di investimento nazionali cinesi guardano al settore dell’hi-tech. Il China Integrated Circuit Industry Investment Fund è tra i più ambiziosi, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti nelle aziende produttrici di chip e design industriale: finora, secondo l’Istituto Chung-Hua, ha guadagnato 19 miliardi di dollari, ma l’obiettivo fissato è di 95 miliardi.
Per l’ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America, tale sostegno finanziario è la prova del fatto che le imprese private cinesi siano manovrate direttamente dallo Stato, quando si tratta di investimenti esteri.

TRASFERIMENTO FORZATO DELLA TECNOLOGIA

Un altro degli espedienti utilizzati dal regime cinese per ottenere la tecnologia dalle aziende straniere, è quello di forzare letteralmente le società occidentali che operano in Cina a trasferire le proprie conoscenze tecnologiche alle loro joint-venture, in cambio dell’accesso al mercato cinese.

Secondo un’indagine condotta nel 2017 tra i membri del Consiglio d’affari Usa-Cina, il 19 per cento delle aziende interpellate ha affermato di aver ricevuto, negli anni passati, richieste esplicite di trasferimento della loro tecnologia. Di queste aziende, il 33 per cento ha dichiarato che queste pretese provenivano direttamente da un’entità governativa centrale, mentre il 25 per cento ha ricevuto richieste dal governo locale.

In un sondaggio annuale sul clima aziendale pubblicato a gennaio, condotto dalla Camera di commercio americana in Cina, il 27 per cento delle aziende americane ha parlato di un’insufficiente protezione della proprietà intellettuale, quale maggiore impedimento allo sviluppo dell’innovazione. Un altro 15 per cento ritiene che questo freno all’innovazione sia dovuto a «richieste di localizzazione della proprietà intellettuale, e/o a richieste di trasferimento della tecnologia».

Il resoconto dell’ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America, ha rilevato inoltre che per le società statunitensi che sono nel mirino delle politiche industriali cinesi, la pressione per il trasferimento di tecnologia è stata «particolarmente intensa». Un’indagine governativa del 2017 sull’industria statunitense dei circuiti integrati, ha stabilito che il 25 per cento delle società Usa è stato costretto a formare joint-venure con controparti cinesi, e a trasferire la propria tecnologia in cambio dell’accesso al mercato in Cina.

Germania, 14 marzo, 2018. (Christof Stache/AFP/Getty Images)

E le aziende europee non hanno subito una minore pressione. La Camera di Commercio europea in Cina ha pubblicato nel 2017 un’indagine sulla fiducia delle imprese, dalla quale si apprende che il 17 per cento delle aziende intervistate, ha dovuto trasferire le proprie conoscenze tecnologiche per poter accedere al mercato cinese. Oltre il 20 per cento delle imprese intervistate, fa parte dei settori target del progetto Made in China 2025: il 31 per cento fa parte del settore aerospaziale e aeronautico, il 23 per cento di quello della produzione di macchinari, e il 21 per cento è nel settore automobilistico.

LE REAZIONI

Stati Uniti ed Europa sono ora sempre più attente all’imminente minaccia cinese. Secondo la Casa Bianca, il 28 marzo, il presidente Usa Donald Trump, in un colloquio telefonico con il cancelliere tedesco Angela Merkel, ha parlato di «unire le forze per contrastare» le pratiche commerciali della Cina. Trump ha discusso della questione anche con il presidente francese Emmanuel Macron.

A gennaio invece, era arrivato un appello da parte del segretario di Stato tedesco per il ministero degli Affari economici, che in un’intervista a Reuters aveva chiesto di attuare a livello europeo misure che consentissero di esaminare più da vicino gli investimenti cinesi nelle imprese europee: «È essenziale che quest’anno venga creata una legge più severa da parte dell’Unione Europea, che permetta di resistere alle brame di acquisizione o al deflusso di tecnologia e del know-how aziendale».

 

Articolo in inglese: What Is the ‘Made in China 2025’ Program That Is the Target of US Tariffs?

Traduzione di Alessandro Starnoni

 
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