Omicidio Regeni, la Gran Bretagna nel mirino dei magistrati

Nelle indagini sulla morte di Giulio Regeni, quella che era l’ipotesi ‘complottistica’ diventa la via principale: gli inquirenti prendono la pista di Cambridge.

Regeni conduceva le sue ricerche seguito due tutor: in Egitto da Rabab al Mahdi e in Gran Bretagna da Maha Mahfouz Abdel Rahman. E in particolare gli investigatori sembrano interessati a quest’ultima.

Nelle dichiarazioni riportate da Repubblica e il Corriere, che hanno ottenuto della documentazione relativa alle indagini, Regeni esprimeva perplessità sulle proprie ricerche. Il quadro che ne sembra venir fuori è che il ragazzo temesse per la propria incolumità e si sentisse spinto dalla tutor verso una direzione pericolosa. La tutor, affermava Regeni secondo il Corriere, era considerata «una grande attivista» in Egitto, anziché una ricercatrice, e quindi potenziale causa di problemi.

E molti dettagli avvalorano questa tesi. Per esempio, secondo il generale Dino Tricarico, intervistato da Tiscali, pochi mesi dopo l’omicidio, Cambridge «ha provato a ingaggiare un altro studente italiano e a mandarlo al Cairo per svolgere inchieste analoghe a quelle di cui si occupava Giulio». In generale, a prescindere dalle intenzioni dell’università, sembra che membri dell’istituzione, o la specifica tutor, possano aver agito in modo non proprio prudente, per perseguire i propri interessi di ricerca. Stando al Corriere, Regeni temeva anche di fare la figura del codardo con la tutor, manifestandole le proprie perplessità; e questo potrebbe essere un dettaglio interessante: un indizio sulla personalità dei due e sulla natura dei loro rapporti.

Ma il nodo è capire perché Regeni abbia commesso l’azione che poi sembra aver portato alla sua morte. Perché, infatti, Regeni ha proposto a un leader dei sindacati, un finanziamento da parte dell’Antipode Foundation? Questo sembra particolarmente strano considerando che l’immagine di Regeni che scaturisce dalle conversazioni pubblicate dai media, è quella di un ragazzo prudente e conscio del pericolo. Non poteva non immaginare, che un finanziamento fosse un’azione molto pericolosa, in un Paese semi-dittatoriale e quasi paranoicamente attento alle potenziali ‘influenze esterne’.

Secondo il Corriere, poi, Regeni quando prendeva un taxi aveva l’abitudine di non farsi lasciare precisamente a casa, per evitare che i tassisti lo denunciassero, come può capitare facilmente a uno straniero in un Paese che ha la paranoia delle spie. Inoltre, quando il ragazzo prospettava la possibilità al sindacalista Abdallah del finanziamento della Antipode Foundation, rendeva estremamente chiaro che i soldi non potevano essere destinati ad attività politiche o personali: un altro esempio di come Regeni, seppur stesse comportandosi in modo rischioso, avesse sempre in mente la propria sicurezza e cosa dire e non dire.

La tutor Rabab El Mahdi, in Egitto per conto dell’Università Americana del Cairo  (non, quindi, la tutor accusata di essere un’attivista) ha concesso un’intervista al Corriere, in cui difende la collega, la dottoressa Rahman, e nega tutte le accuse. Secondo la El Mahdi, era Regeni stesso a essere interessato ai sindacati egiziani, cosa plausibile visti i contributi di Regeni che si possono trovare in rete, che danno di lui l’idea di un ragazzo con idee politiche ben precise.
Inoltre, la El Mahdi afferma che l’idea di proporre un finanziamento ai sindacati non fosse partita dalla tutor – che lei difende a spada tratta – ma da Regeni stesso. Come si è detto, questo è un nodo cruciale, in quanto se l’idea fosse stata della tutor sarebbe stata chiaramente poco professionale e alquanto pericolosa. Sarà quindi importante, per gli inquirenti, verificare questo tassello della storia.

Considerando il quadro che si è finora delineato, anche se finora sono stati raccolti solo indizi e non prove, la teoria – più volte prospettata – secondo cui Regeni sia stato manipolato dai servizi segreti britannici con l’intermediazione di Cambridge, forse anche in modo ulteriormente indiretto e sfruttando le personali disposizioni e ideologie delle persone coinvolte, acquista ulteriore valore. La Gran Bretagna, secondo una fonte di questo giornale, è anche uno dei Paesi che ha più da guadagnare dalla rottura dei rapporti tra Italia ed Egitto, alleati anche nel contesto della Libia, terra di grande importanza a livello di risorse e non solo.

E chi è stato, dunque, a uccidere Giulio Regeni? Forse le autorità egiziane, magari con l’intenzione di fare un dispetto più agli inglesi che agli italiani? Ma questo non spiegherebbe perché ne abbiano fatto trovare il cadavere il giorno della visita in Egitto del nostro ministro dello Sviluppo Economico.
Abdallah, il sindacalista che ha venduto Regeni alla polizia e ai servizi segreti egiziani, ha affermato in un’intervista all’Huffington Post: «Quando io l’ho segnalato ai servizi di sicurezza, facendo saltare la sua copertura, lo avranno ucciso le persone che lo hanno mandato qua».
Abdallah dà quindi la colpa anche dell’omicidio agli inglesi o altri. La sua opinione conta poco perché ovviamente deve parlare a favore delle autorità egiziane e inoltre, dal momento che le autorità egiziane sospettavano di Regeni proprio per via della denuncia di Abdallah, è perfettamente naturale che siano state queste ultime a torturarlo e ucciderlo.

Eppure, proprio perché questa è la tesi più naturale, è plausibile che la manipolazione sia partita da altrove, e quel dettaglio del rinvenimento del corpo nel giorno della visita ufficiale italiana potrebbe tradire il vero movente, in quanto indica come chi ha ucciso Regeni avesse interesse a rendere il fatto eclatante.
«Noi non siamo cosi naif da uccidere un giovane italiano e gettare il suo corpo il giorno della visita del Ministro Guidi al Cairo», diceva infatti l’ambasciatore egiziano nei primi giorni dopo la tragedia.

 
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